30 aprile, Lecture DC – Politecnico di Torino

 

 

Giovedì 30 aprile 2020, ore 13.00 – 14.30

Architecture: ENDLESS FORMS MOST BEAUTIFUL (C. Darwin, 1859).
Dolomiti Contemporanee -  G. D’Incà Levis
Idea, cultura e progetto di una pratica di rigenerazione di siti e territori montani (Punk Is Not Dead)
 
Politecnico di Torino
a cura di Silvia Cafora
introduce Antonio De Rossi

Puoi riascoltare qui la Lecture

 

 

- Perché il punk? Non bastava la scalata profanatrice?
- Se rispondi lo neghi, il punk.
- Ma non dire cazzate; se un uomo è consapevole, afferma o nega secondo proprio giudizio; le definizioni compiute e le sentenze di comparto son lapidi: nel cesso. Usa la testa come un mestolo.

“… Voglia il zielo che il lettore, reso ardito e feroce …” dal testo-a-scudiscio … trovi infine il suo cammino dirupato e selvaggio … o che intraprenda finalmente un’altra carriera, nella testa almeno, se non nella palude desolata che loro due (ma insieme son meno d’uno) abitano spogli e settari.
E’ chiaro subito che c’è un bel nulla da giustificare. Ma noi spieghiamo sempre, azichenò.

E dunque.
Il punk è un maglio d’ὑγιεινή τέχνη: ammazza i parassiti, disinfesta la moquette (sempre lercie la moquettes inglesi).
Ogni buon pensiero e progetto, è eversivo.
Il punk venne e mise in strada una parte dell’immondizia che stava in salotto.
Era ora di pompare qualche secchio di serotonina.
In realtà, mica così si ammazzò Bach.
Non essere vile, infantile, ignorante d’un saper posticcio, spaventapasseri.
O slmeno, radrizzati il toupet.
Nemmeno i futuristi affondarono Venezia.
Entrambi sputarono via un poco di retorica e fiacchezza.
Siate seri, cercate di capire.
La (buona) cultura è sempre e comunque processo organico e accumulativo – quindi il punk serve all’evoluzione, che è antiborghese (non vuol dire di sinistra: destra e sinistra, altre lapidi nel cesso).
I processi creativi (la “poietica” vorrei dire: l’incarnazione -nel progetto nell’ingegno nell’arte nella scienza- delle facoltà dello spirito, che son cosa ben diversa dai magri fondali professionali e dai saperi tignosamente confinati nelle grigie categorie cantonali d’ognuno), se son reali (e non gli ennesimi indecorosi siparietti decorativi), prevedono sempre uno scarto, scossa, mina, chiglia blindata che spacca l’argine esplodendone in cielo i frantumi, che poi riprecipitando in terra ne bucan la superficie consentendo finalmente al sangue di sgorgare ancora (è un bisturi a mazza, come la poesia: pensiamo a Trakl. O a quella testa in campo di riverbero verde che esce dal frigo – Zombi 3, Fulci ‘88).

Noi ad esempio agiamo l’ercinico critico.
Una montagna che si corrughi ancora, nella pulsione razionale (precisamente).

La nostra visione è trasformativa, nessun farisaico senso o intento opportunistico di proprietà o profitto. Non  si arraffa.
Non abbiamo casa, tutto ci appartiene.
Non andiamo a riposare con l’arte e la cultura e le idee-a-cuscino nei corpi scombinati e franti di questi siti depressi, non abbiamo nessuna nostalgia per il loro tempo trascorso andato finito, non frignamo, e invece lavoriamo, costruiamo reti (in quattro quarti): produciamo.

L’innesco di un processo trasformativo che scuote un’inerzia non è un riff metal, né può stare nella logorroica epica teatralizzata dei Queen.
Noi non siamo quella roba là.
Questo nostro innesco è brutale e sintetico quanto serve.
Non accetta le regole (quelle altre lapidi di sistema e prammatica che han condotto alla stasi catatonica, alla degenerazione patologica dei potenziali), e agisce con i candidi strumenti rinnovativi: l’ascia e il martello e la picca e le altre punte addentellanti (#braintooling).

Alle volte, dobbiamo brandirli contro la Reazione, codesti attrezzi acuminati dell’aderenza (all’idea; al reale). Contro taluni architetti eunuchi da cenotafio (quelli che contemplano in lamentazione querula le reliquie d’un tempo, e per i quali sfiorar tali sindoni con i diti è cosa da eretici, blasfemia addirittura). Una prece per lor signori autoinsacellati (disfunzione erettile della mente), e che si cavino di torno all’istante: il nostro azionismo per le crode ed i cementi lo chiamiamo alpinismo culturale: dita e mani vanno strette sulle prese, il contatto fisico è mentale e necessario (noi viviamo nei siti che vogliamo far rivivere: ci stiamo dentro, non rinchiusi ma aperti, siamo motivati quindi ci facciamo intrinseci: per questo ci riusciamo).

Che poi quei funzionari della specie professionale (povero Schopenhauer, che guardava sempre ai piccoli avvolti nel sudario di Maja, ma di piccoli come questi, abbarbicati e incatenati in autoprotezione sindacalistica alla loro gran-roccia-del-cesso – ecco un nuovo genere di Prometeo dell’albo – non ne aveva scorti).

Son gli igumeni archimandriti fossili della categoria (categoristico, non categorizzante) spenta nell’angolo ottuso: la lobotomia ultramontanista, catego. Vorremmo riprendere questo termine ultraiolo, ultramontanismo, per ricaricarlo di bellezza e slancio, e farne un vaiolo. Estrarlo dalla storia e geografia, ripulirlo, rimuovere la schiuma e la bava, invertirlo, armarlo, per dire di una tensione che morde la gravità senza negarla, essendone morsi: ci spezziamo volentieri tutti i denti ad ogni momento: ricrescono veloci come i canini del sangue. Zanna Scarlatta (…).

Di questo alpinismo culturale abbiamo scritto sovente, ecco tre link, tre su trecento, se tieni la zucca dura e ancora non hai capito bene, approfondisci:
moreness / l’alpinismo culturale
scalare l’architettura
pan gëllner

Perché insulti quel che chiami inetto invece di limitarti a celebrare il Bardo?
Frena i maiuscoli, essere minuscolo, servo tracotante; noi non celebriamo nessun bardo: scaliamo e riscaliamo lo spazio.
Capisci quanto intento costruttivo si trova, dentro a questo destruens apparente.
No, non è apparente: è, ancora, profilassi d’igiene.
Insomma, certa robaccia prigionante va buttata via.
Non si tratta di iconoclastia (un po’ sì) o luddismo culturale (un po’ sì).
E’ la critica: κρίνω.
Direi che in ciò consiste l’esercizio della funzione apofatica.
Come nella teologia negativa per Kant, no?
Non proprio.
E però, se vuoi marcare la differenza, devi essere onesto. Una cosa vale nove? Vedilo, sappilo, dillo.
Una cosa vale zero? Vedila, perdio, orbo che sei, puntala, sparala.
Qual è l’alternativa? Una (il)logica dell’equivalenza, dell’indifferenza. Una cosa pavida e irresponsabile, lercia, molle, prolassata, avara, cieca, inestetica. Non la vogliamo nemmeno sentir nominare. Se osa pararcisi davanti, una simile configurazione di πενία, la decapitiamo (o le uriniamo in tasca).

Ci sono, insieme a quegli architetti glabri e inchiodati nelle risacche della storia fossile o del cemento intangibile e del maestro o monumento anchilosati sul piedistallo rugginito coperto di fertile guano: alcuni archeologi industriali, o storici appunto, o tecnici amministrativi della conservazione sistematica (a loro consigliamo di leggere qualche racconto dalle città e dalle campagne di Moupassant, Il Ladro di Georges Darien, Quelli dalle mezze maniche di Georgess Courteline, perfino Casa Desolata di Dickens, e poi basta, che tanto l’essere scatologico con si specchia), perfino avvocati (parvenu d’azzeccagarbugli, eleganti come un Governatore dalla braghe strette): sti alcuni che non capiscono un’acca, e attribuiscono alla nostra buona pratica un eccesso di personalità.

E questo è certo in rapporto: dato che loro non ne possiedono, di personalità, lugubri opachi fantocci disgregazionisti.
Abbiamo detto che non siamo per il teatro e per l’epica: con personalità intendiamo chiaro giudizio sintetico e azione radente.

E così via, insomma.

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