24 febbraio 2014

Dopo due mesi, si è concluso per Dolomiti Contemporanee il Concorso CheFare2.Ecco qui alcune considerazioni, con le quali soprattutto vogliamo raccontare a tutti coloro che ci hanno sostenuto, e che continueranno a farlo, la nostra visione, il significato del nostro operare persistente, il senso stesso che ha avuto il Concorso CheFare2 per DC.Alcuni mesi fa, Dolomiti Contemporanee si è candidato al Concorso nazionale per la cultura cheFare2, insieme ad altri 600 progetti provenienti da tutto Italia. 330 di questi progetti sono stati valutati dal comitato che ha indetto e gestito il concorso (Doppiozero, Fondazione Fitzcarraldo, Fondazione <ahref, Tafter), e
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4 dicembre 2012

Vas: un’ipotesi di rivitalizzazione attraverso arte e cultura per l’ex Cartiera Il complesso dell’ex Cartiera di Vas costituisce un’emergenza architettonica estremamente significativa. Il sito è connotato in modo peculiare e risulta interessante dal punto di vista dei volumi, degli spazi disponibili e dell’impianto urbanistico, rispetto all’idea di un suo possibile utilizzo
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Carégheta, reinnesto – di Stefano Collarin, con Mauro Bortot

Carégheta
Stefano Collarin con Mauro Bortot
Una ricerca sull’industria storica dei careghéta
Ottobre 2022

Lì non si può fumare, neanche all’aperto. Ci nascondiamo e accendiamo una sigaretta: tabacco forte senza filtro.  Non stiamo male. Siamo lì per prenotare un appuntamento (ci costerà caro il barbiere, pochi soldi qua in montagna?). Nel ritardo (pochi soldi e poco personale qua in montagna) chiacchieriamo e decidiamo di farci una birra. Mauro è un seggiolaio, un caregheta: impaglia e costruisce sedie in legno, mica per hobby, lui ci mangia con il paluch e il legno stagionato. In poche ore mi aveva già raccontato tutto, forse lo fa con tutti o forse no. Con chi lo sa ascoltare sì. Prometto di passarlo a trovare presto a casa per vedere il laboratorio.
Ha un orto vivo a metà ottobre. È difficile in questi territori, ci vuole fame. La stessa fame che, dopo la chiusura del centro minerario di Valle Imperina, nell’Agordino, ha permesso a molti lavoratori di qui di inventarsi un nuovo mestiere: il pajeta (impagliatore) e il caregheta (costruttore e impagliatore). 
Mauro non viaggia come facevano gli agordini (poi ne dico meglio), lavora in laboratorio: sega a nastro, trapani e qualche fresa sistemata ad hoc. Al muro poster di giovani sessantottini nudi e sagome per tagliare il legno, in magazzino piante ben selezionate invecchiano per incastrarsi nel modo giusto: senza colle.

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Giù per la bassa i borghesi amano ghirigori e grazie, qua invece siam più pratici: gambe dritte ed economiche. A Feltre (che sta nel mezzo) invece andavan queste: né dritte né graziose… Così nessun si sente spaesato” (Mauro Bortot). 
Semiotica. Neanche i professori la spiegano così bene.

Dal 1800 ad oggi, per chi ci sopravvive, il mestiere non è cambiato molto. Qualche trapano e sega in più ma il grosso si fa ancora a mano. Ora per tanti non è più un mestiere, è un hobby e un ricordo.
Noi siam qui per lavorarci (DC).
Un tempo viaggiavano molto per trovare clienti, prima in bicicletta, poi in treno e in ape. Ora in Dacia si consegna solamente . I pochi seape (clienti) arrivano da soli.

Viaggiando imparavano a conoscere il mondo e le persone, erano scaltri, furbi e resistenti alle intemperie. Sceglievano bene il proprio assistente: un bambino, poi adolescente (8-12 anni), che fin da subito allenava lingua, occhi, orecchie e mani. Doveva imparar in fretta per non essere rispedito a casa. Anno dopo anno aumentavano i compiti e il compenso, ma restava gaburo finché non si sentiva abbastanza capace e autonomo. A quel punto diventava socio al 50% o si cercava, a sua volta, un gaburo per iniziare a lavorare da solo. Le sue orecchie dovevano saper ascoltare i dialetti di tutti i territori che attraversavano. La lingua doveva saperli un pò tutti, ma soprattutto doveva conoscere lo scapelament del Conza (lingua segreta trai/dei seggiolai) che serviva a non farsi capire dai committenti. Furbi questi, dovevano solo mantenere i segreti del mestiere? No, si divertivano e si sentivano anche più nobili in paese, non borghesi, nobili conoscitori del mestiere. E quante altre porcherie si son detti?

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 Il ragazzo era il primo ad entrare nelle città e nei paesi che incontravano. Annunciava l’arrivo del conza e andava in cerca di lavoro, ma non solo. Allenava gli occhi: cercava il miglior posto per lavorare, il più comodo per dormire e osservava i tavoli nelle case dei clienti (molti segni, tondi e rossi, di bicchiere = buon cliente). Le mani aspettavano molto prima di entrare in azione. Gli attrezzi costavano caro ed erano ben affilati: un gaburo zoppo non serve a nessuno. Iniziava da pajeta, impagliando piccole sedie per bambini, oggetti simbolo, souvenir del mestiere. Doni per le donne e le ragazze più gentili (era difficile stare molto tempo lontani dall’Amata casa).

Torno in pieno inverno. La terra è troppo gelata anche per Mauro ma qualcosa nell’orto ancora sopravvive. In casa una luce fioca, freddo e un telaio che ruota velocemente. Finalmente lo vedo all’opera. Sigaretta, spruzzino, paluch, cathapaia, martello e chiacchiere. Sempre dense le chiacchiere, lui si scalda impagliando, io ascoltando.

Ora i telai impagliati arrivano dalla Cina, vengono fatti a macchina. Macchine rapide e la seduta costa poco. Ma la qualità? Obsolescenza Programmata. I conza qua non rinunciano mai alla qualità. Antipatico pidocchioso, se i soldi li hai e non paghi abbastanza l’impagliatura resta impeccabile. Verrà imbottita come meriti e il tuo gattino (affamato?) si divertirà. Tornerà il pajeta. Obsolescesca Naturale. E noi Dolomitiparticolarii stiamo simpatici a Mauro? Sventriamo una sedia e capiamolo. Ecco, niente esca. Abbiamo abboccato, tornerà.

Mauro non ha il cellulare, solo un telefono fisso. Se non risponde forse ti richiama. Antitecnologico, Unabomber (T.K.) senza bombe. So che deve parlare ad un piccolo convegno sui palù (dove raccoglie la paglia per le sedie), non risponde al telefono, sarà lì. Ci vado a Sernaglia della Battaglia (TV) per ascoltarlo. I palù neanche visti ma ce li spiegano bene: sono templi in cui non si lavora e non si prega. Si riceve: si raccoglie la càrice (paluch) e molte altre piante, si pesca e si caccia. I benedettini, grazie a dio e ai suoi simboli, progettarono bene quel paesaggio. Ex paludi autosufficienti, si mantenevano con la minima cura. Ora il Verde le cura con il prosecco. Dalle paludi si beve ben poco però, si vendono solo pesticidi. Torniamoci in questi templi prima che sia troppo tardi. Mauro si alza e, esitando, decide di non parlare: niente d’interessante da dire? Troppo timido? No, a quattrocchi ci si spiega sempre meglio.

Tu parlaci. Non so se gli stai simpatico ma non serve che inizi pure tu ad andare dal nostro parrucchiere, non preoccuparti, materiale ce n’è. Vai a Rivamonte e Gosaldo, ci sono piccoli preziosi musei aperti solo per te, se chiami. È un peccato? Sì e no. Chi ti apre scapela ben e conosce bene la storia del centro minerario. Rifiuti, forni fusori, rame e argento; c’è ancora materiale prezioso in valle? Un’altra storia da ascoltare bene. Ci arriveremo. Questo invece è sempre aperto, ci trovi libri, documentari, interviste, tesi e altri mestieri ancora da indagare. Passaci delle ore, serve. Anche in DC c’è tutto il necessario, chiedi.

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 Stefano Collarin, ottobre 2022