2 agosto – Nuovo Spazio di Casso – Detriti Frammenti Schegge Brecce
Detriti / Frammenti / Schegge / Brecce / Lampi / Fenditure
Nuovo Spazio di Casso al Vajont
2 agosto / 31 dicembre 2025
Opening: sabato 2 agosto, ore 17.00
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performance all’opening
Togliersi da sotto
Paolo Dal Pont
sabato 2 agosto, ore 18.30
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Artisti: Giorgia Accorsi, Marco Andrighetto, Francesco Ardini, Alessia Armeni, Ariele Bacchetti, Lorenzo Barbasetti di Prun, Massimo Barbierato, Michele Bazzana, Andrea Bocca, Edoardo Bonacina, Giovanna Bonenti, Laura Bouyard, Thomas Braida, Lucia Bricco, Iside Calcagnile, Nicole Colombo, Lorenzo Conforti, Fabio De Meo, Eliane Diur, Iulia Ghiţă, Marco Gobbi, Andrea Grotto, Fabio Guerra, Piotr Hanzelewicz, Katya Kabalina, Lorenzo Lunghi, Nazzarena Poli Maramotti, Gianmaria Marcaccini, Anna Marzuttini, Marco Mastropieri, Matthieu Molet, Zeno Nan, Giorgio Orbi, Alessandro Pagani, Sebastiano Pallavisini, Caterina Perego, Beatrice Roggero Fossati, Angela Rui, Giuseppe Salis, Caterina Erica Shanta, Martin Schuster, Giacomo Silva, Kristian Sturi, Fabio Talloru, Vere Bestie (è un gruppo attivato da Simone Cametti, che include Sara Antonellis, Gabriele Ciulli, Niccolò Di Ferdinando, Alexandra Fongaro, Davide Miceli, Alice Papi, Clarissa Secco), Giuseppe Vigolo, Xueqing Zhu.
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Orari di mostra:
agosto: aperto dal mercoledì alla domenica,
in orario 10:00/12:30 e 14:30/18:30
mostra chiusa dal 7 al 9 agosto: perchè inauguriamo Xilogenesi a Perarolo di Cadore
settembre: aperto dal mercoledì alla domenica,
in orario 10:00/12:30 e 14:00/18:30
mostra chiusa l’11 e il 12 settembre: perchè facciamo Riparipa2
da ottobre a dicembre: aperto quando segnalato, e su appuntamento per gruppi e scuole
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La mostra è parte del programma dei Dolomiti Days 2025, iniziativa promossa dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, che si realizza in collaborazione con Fondazione Dolomiti Unesco, Magnifica Comunità di Montagna Dolomiti friulane Cavallo e Cansiglio e Ecomuseo Lis Aganis, insieme al Comune di Erto e Casso.
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Partners: Progettoborca, DB Group, Artecos, Speck Unterberger Becher, Panificio Marcon, Ditta Fregona Renzo, Caffè Bristot, Vini Biasiotto, Birra Dolomiti, tutta la rete DC.
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Nel 2024, al Nuovo Spazio di Casso, abbiamo pensato e costruito Le Fogge Delle Rocce, una mostra collettiva che ha indagato e scanalato, plasticamente, ingegnosamente, poeticamente, scientificamente, una serie di temi connessi alle forme e sostanze della montagna contemporanea, come sempre facciamo, utilizzando la geologia come disciplina e fonte immaginativa, attraverso gli interventi e le opere di 53 artisti, e la collaborazione attiva di ricercatori esperti del territorio e delle scienze geologiche.
La geologia rimane, come uno degli ambiti di riferimento, insieme ad altri temi e concetti, anche nella nuova mostra, che inaugureremo a Casso il 2 agosto, che rimarrà aperta e visitabile fino alla fine di ottobre 2025 e poi oltre, e che, come di consueto, includerà alcuni appuntamenti legati alla discussione culturale e tematica (talk, workshop, performance).
un legno incrostato di melma rappresa. viene dalla ruina di cancia, estratto da una colata detritica (giugno ’25)
il nido di fango della vespa vasaio: sembra un involucro (capsula) chiuso.
al suo interno, fervono la vita e la morte. i piccoli ragni paralizzati alimentano le larve
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La mostra DC2025 a Casso è incentrata su: Detriti / Frammenti / Schegge / Brecce
concept:
Questi termini (traverso, margine) vengono declinati secondo una prospettiva pluralistica (o che tale potrà parere all’inizio).
Ma non meccanicistica, come accade, ad esempio, nei più pensieri filosofici e scientifici riduzionisti di matrice atomista.
Il frammento plurale, diciamolo subito, e non una circonferenza d’uovo, sulla quale surfare in eterno inarcamento, è perché non ci interessa fronteggiare, fare i conti, con un solo oggetto, un oggetto solo, o concetto, coltura, colonia, FINITI, completi, conclusi, tra l’altro, e spesso, prima ancora d’esser stati solcati, scavati, aperti, e quindi, in tal modo pretesi, dati per dati, automatici, deludenti.
Non esiste alcun oggetto già lì pronto poggiato per terra, datità non coincide con essenza o presenza, nessun senso dell’oggetto è già steso disponibile lì in terra, in consultazione, prestito, noleggio; occorre rivoltare, per cavarlo, insinuare i lampi nelle fenditure.
michaux, certa miserabile vibrazione moltiplicante
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Ad un certo punto del Miserabile Miracolo, mi trovo di fronte a una roccia. Si spacca. No, non è spaccata. E’ come prima. E’ di nuovo spaccata, interamente. No, non è più spaccata, affatto. Di nuovo si spacca. Di nuovo smette d’essere spaccata, e tutto ricomincia indefinitamente. Roccia intatta, quindi sfaldatura, poi roccia intatta, poi sfaldatura…
Questo allucinato. D’un geologo psicotropo della pietra dell’anima, dura porosa.
Nelle Fogge parlavamo e parliamo: d’una lisergica montagna-cristallo Per Kirkeby, ad esempio.
Dura eppure una crepa da sempre s’allarga, come per l’acqua che giunge di dentro fratturando, dagli oceani interni a minare una solidità d’immota parvenza.
Ci interessa chiarire una metodologia d’approccio alla realtà, che è quella che spesso caratterizza le ricerche praticate dell’uomo poetico/analitico, quando egli, chirurgo sensibile, affronta un tema o un fenomeno a partire dagli elementi, apparentemente scissi (o scindendoli di proposito), che lo caratterizzano, o paiono caratterizzarlo, fenomenicamente, empiricamente.
Ma anche, e prima, intellettualmente, spiritualmente e culturalmente, nel ritmo di una saliva prurescente.
Volendone Intendere La Natura.
Voler Intendere natura è un impulso attivo, mica un rigido istinto, proprio di chi non si limita ad esserne parte, accettando o subendo il ruolo suo condizionato di semplice elemento gregario perpetratore, nel colon aspaziale tana dell’impulso cieco (La Wille Zum Leben del Mondo come volontà e rappresentazione), e volendola invece pensare sviscerare, sperimentandone le attitudini plastiche (trasformatività del pensiero e della materia e dello spazio: ovvero della letteratura-crepaccio che spalanca sui benedetti baratri dei lampeggiamenti interiori, reali).
Spesso, è possibile maturare un’idea generale, ovvero avere ragione di un intero, solo dopo averne identificato e analizzato, intuito (avvertito-intuito con la mente: e riappuntito), le parti componenti, i singoli atomi o angoli o frammenti o sintagmi di realtà che lo determinano e strutturano. Attraverso la ragione e la scienza, certo. O l’alchimia. O, nella migliore delle ipotesi: la poesia e l’arte. L’Orientamento, Grande o Piccolo che sia, beve fiotti d’energia, ruscelli rivolgono di scaglie metalle lo spazio, modella e traduci.
Quindi, nel caso si voglia tentare di raggiungere una visione organica di alcuni singoli aspetti della realtà o dei fenomeni indagati, e non li si voglia prendere per reali ed interi prima ancora di averne percorso la circonferenza e l’intestino, sarà utile e consigliabile scomporre questa realtà nei suoi costituenti di base, siano essi ideali o fisici: elementi atomici cellulari minerali psichici: o concetti.
In realtà ciò è utile sempre, per chi scandaglia o scava pozzi, anche senza spingerli verso o vincolarli a visioni finalistiche o teleologiche (ma un motivo dovrai pur averlo, per decidere se una cosa fare o pensare) ovvero per capire o sentire, l’ordine o il disordine, senza pretendere di riorganizzarlo a proprio piacimento (non esiste alcun piacimento proprio, come non esiste mai un gusto personale, se non vuoi far tu della libertà intrusiva il funerale, desolando l’apollineo baccanale), oppure pretendendolo, secondo una qualche regola posta pretesa o suppostaPensa ad esempio a come e perché costruiscono ed espellono (o eiaculano) i testi, che sono protrusioni spaziali (nella forma alternata o coesistente di sciolti plasmi solari o gelidi getti formali – Cristalli relanti) Joyce e Burroughs o Pynchon, costruendo e destruendo, sistemi e convenzioni, nelle libere, ovvero fondatissime, obiezioni poietiche, che sono deframmentazioni, squarci, metodi, maree.
Non caschi nel vago, là oltre i serrami, lo spazio non spolia, vi sprofondai.
Se non si vuole fare questo (penetrare discettare), allora bisogna agire a partire da una prospettiva centrica o monista. Rimane il fatto che, non solo per gli intelletti schematici, spesso l’oggetto generale non risulta davvero comprensibile prima della scomposizione e ricomposizione critica delle sue parti. Ecco perché i pensieri monisti (la verità sta nell’uno), alle volte sono posti come presupposti non verificabili, uova, sassi, biglie, ferme; ed in ciò essi negano validità a un elemento essenziale: la capacità dell’uomo di agire liberamente ed assennatamente e sperimentalmente, ghignando senza sbavare appuntendo: sugli assetti del reale; contribuendo, mentre lo si testa attraverso le funzioni razionali ed immaginative, a muoverlo, tran-sformarlo, rivoluzionarlo.
Ad esempio: cogenerare paesaggio, diciamo spesso, è preferibile a contemplare paesaggio.
Ogni cosa vasta poi, se avvicini, può venire ricompresa in una cosa piccola (e viceversa): falso miracolo spettacolare/spettatoriale del cinema seduto; sempre si tratta di scegliere scale e scalare: in piedi.
Non solo nelle chimica, non solo nella biologia (non solo nell’astronomia).
L’universo nella curva d’un unghia.
La posizione responsabile di un cercatore, ri-cercatore, ha sempre a che fare con la fiducia nella conoscenza, che non può consistere in un sistema di dogmi e prescrizioni apodittiche, ma invece in un sistema dinamico e multiprospettico dell’interpretazione della cosa delle cose, che si applica alla stessa alle stesse, per la pura volontà (urgenza) di capire e interagire, colpire e rompere (liberare pulire), introiettare e ancor-generare.
Più correttamente, e senza cadere nella petulanza delle contrapposizioni manichee: occorre tendere, contemporaneamente, senza pregiudizio, alla visione generale e a quella particolare, nutrendo ed attrezzando l’una dell’altra, e intrecciando le prospettive, le scale, i pensieri e i metodi, dello spirito, del pensiero, della parola, del lavoro, affila e spalma.
In Democrito, le unità indivisibili di base, gli enti, il qualcosa, il denso (ma anche gli atomi responsabili della conoscenza, ovvero l’anima e il pensiero) si aggregano e si disgregano, in una vibratoria eterna pulsazione produttiva, e i vortici così generati producono mondi, certamente variabili: ecco il divenire, percui.
E il resto? E il testo, che è esso stesso un fremente divenire? (perchè ogni forma di scrittura non copiativa, persino ogni traduzione, come ognuno dovrebbe sapere, è una trasformazione definitiva – che peraltro in tal modo spezza e spodesta ogni frammento di tradizione, rinfocolandone gli aliti primi, quelli di fiamma strutturanti, che nulla hanno a che fare coi successivi regimi stabilizzati e dati, come oggetti, alla greppia).
E il lόgos?
A proposito di Eraclito, Donelli e Marcovich parlano di lampeggiamento libero, nell’articolazione frammentaria ed enigmatica dell’intonazione poetica, che è sostenuta da una vibrazione misteriosa. Nell’oscuro, nello spezzato, nell’incompleto richiamo, nell’orfismo come nei brodi dopaminici, nel kōan, devi cercare nella cellula per trovare distensione: mica il mondo è in ostensione.
Questi elementi, tornando a Democrito, si muoverebbero spontaneamente, in modo deterministico (apò tautomàtou), in un vuoto: e questo è quanto noi qui invece, senza tante né poche pastoie retoriche, non accettiamo.
Gli elementi determinatori della ricerca e della cultura sono elementi responsabili, ovvero deliberati, morali, che mai rinunziano alla valutazione critica, alla fatica epistemologica ed ermeneutica, all’impegno dell’attenzione.
E lo spazio ri-generativo della cultura non è un vuoto, un etere, un’oscurità insensibile/insondabile: è, al contrario, un pieno, un piano, di determinazione, di reazione, di senso, d’idea (che scardina).
Nella poesia come (e più che) nella scienza.
Qui potremmo persino contrapporre (meglio: integrare) **De Rerum Cultura a De Rerum Natura.
SC.
breccia (Arizona State University)
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Insistiamo.
La cultura non fa i servizietti, non chiude fuori la ricerca e lo slancio e l’eccitazione mercè la litificazione del sapere (cattiva roccia), non deve farlo, ma ogni giorno lo fa: falsa cultura, incuria inchiodata, mesto paradosso d’accademia saponificata.
La cultura, ripete Nietzsche mentre appronta lo spazio per introdurre il suo primo maestro Schopenhauer, non fornisce membra artificiali, nasi di cera, occhiali per gl’occhi. Essa è liberazione, dai rottami. Ecco: con detrito non intendiamo rottame o relitto, mai.
Intendiamo una parte sensata, ancorchè al limite mostruosa (la forma incompiuta può parer terribile), che ci guidi ad un riconoscimento ulteriore, rispetto al quale siamo attivi, reattivi, immaginativi, architettatori, plastici.
**Con la quale giocosa espressione intendiamo che l’uomo, pur non sopravvalutandosi al punto di ritenersi un (uno sciocco e presuntuoso) inventore (meglio vederlo come un testardo rivelatore, sonar, antenna), sa avere cura delle riflessione disvelatrice, e non sottovaluta affatto la natura cogente e trasformativa di alcuni processi che la conoscenza sa innescare o individuare o indicare.
Si tratta di dare ragione alla ricerca, rifiutando le tesi aprioristiche, e di occuparsi operativamente di comprensione ed evoluzione.
Cultura sinonimo di coltivazione dunque: dei territori umani. Per alcuni di questi terreni, i più duri, apparentemente impermeabili, l’erpice è costituito dall’intelletto, la macchina per la dissodazione del concetto è l’encefalo: in connessione con lo Spirito.
Inclusioni. Rainbow Lattice Sunstone, Mud Tank, Northern Territory, Australia.
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Di alcuni dei termini che abbiamo selezionato, Detriti / Frammenti / Schegge / Brecce, non tutte le accezioni sono interessanti qui per noi, chiariamolo.
Se vuoi esser preciso, devi ben definire la tua area d’attenzione, quindi l’accezione, ovvero il significato particolare che conferisci a quell’oggetto, o concetto.
L’accezione è tutto.
L’accezione è la posizione, o l’intensità, dell’intendimento, della reazione. La direzione, e la volontà (ancora: nell’assetto suo critico, ovvero selettivo).
Non stiamo pensando alla disarticolazione dell’organismo nelle sue parti scisse, né a un fil di perle, né alla frana di una montagna giù dai suoi canali scoscesi, né alla dissoluzione di un intero nei residui di poveri cocci sfasciati sfatt’informi.
Pensiamo ad una costruzione per parti, e ad uno smontaggio accurato dell’organismi, volto alla comprensione della loro fisiologia (ontologica, culturale), più che della loro meccanica.
Facciamo un paio di esempi, qua e là intercalati all’escavazione, per capire cosa intendiamo e cosa non ammettiamo, dicendo frammento.
Le lastre di pietra che Francesco Ardini (il primo a muoversi per questa mostra) ha raccolto in due storiche piccole cave nei pressi di Casso, venivano usate tradizionalmente dagli abitanti del paese per realizzare le coperture delle loro abitazioni di pietra.
Queste lastre sono dei frammenti di cava. Caviamo brecce dalla montagna per abitarla.
Altri umidi sprizzi di terra di fiume raccolti dal Lago del Vajont, Emiliano Oddone è ancora con noi, credo ben, anche lui troverete nel testo composto che cresce sobbolle e viene coi lavori munti dal corpo ancestrale del paesaggio cosiddetto geologico.
D’altro canto un frammento è anche un ben noto genere letterario: da Novalis a Walser, passando per quelle Brecce di Michaux, non occorre far la lista completa, chi legge lo sa, chi non legge non capirà, saprà. sarà.
Spesso, lo scrittore e l’artista decidono di attivare sistemi di ricognizione, di scavo e di restituzione (testi, opere, crampi), che invece di affidarsi ad un plot organizzato, si affidano allo scarto, allo spostamento, al wit, all’esplosione, all’aforisma, componendo opere che risultano come giustapposizioni di costellazioni, pantheon del caos o della complessità o della pluralità: degli aspetti della realtà, oppure della loro percezione-comprensione.
Qualcosa di ciò che non intendiamo, quando diciamo Detriti.
Non parliamo di ricostituire un intero a partire dai suoi cocci.
Non partiamo da un oggetto rotto, seppure in mostra troveremo anche i resti di esperimenti apparentemente falliti, che invece sono brani o parti di ricerche sintomatiche. Quando esplode un forno ceramico, o un pezzo si sbriciola nella sua bocca ardente, e dunque non si completa una progettata produzione, questo è un vantaggio, che celabriamo con giubilo, un giubilo, una contentezza, simile a quella dei camorzieri, quando si muovono per i viaz, camminando sulle strette cenge ghiaiose, in equilibrio instabile sulle loppe umide: quelli che non van per la strada asfaltata (da altri).
Quando quel pezzo esplode o si sbriciola, nei suoi frammenti non rileviamo perdita alcuna, ma la traccia e il passo d’un processo, non necessariamente finalizzato alla produzione di un oggetto (la modalità del processo è più interessante del risultato nell’oggetto, e della funzione applicata una volta per tutte).
In alcuni casi dunque, incompleto è preferibile a concluso, perché il primo concetto tiene aperta la possibilità di un’ulteriorità, e si svolge attraverso una sperimentazione. Proprio nel fatto che l’esito sia incerto, sta la virtù di quella pratica, che non è scontata, e il cui inizio non include, automaticamente, alcuna garanzia a proposito di un risultato: e questo è un gran sollievo, perché non è accaduta, per un’altra volta, la stessa cosa, la temibile cosa prevista.
pineland. foto teresa de toni
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Alcune architetture che ci interessano sono apparentemente detritiche: collassate riverse su se stesse, le fabbriche abbandonate attraggono i romantici contemplatori di ruine, che noi respingiamo, perché non ricerchiamo affatto un’estetica dell’abbandono, non vogliamo crogiolare lo spirito sulla griglia d’una sensazione (turistica) dell’esplorazione del crollo in camera, ma reagiamo alla perdita di valore, laddove a cadere è un valore (se invece ad essere in bilico è un disvalore: facciamo leva alla sua base, per agevolare il crollo).
Abbiamo sempre raccolto frammenti, resti, frantumi, vertebre, dalle architetture implose. Ma quelle parti sono diventate, per sineddoche, riferimenti al valore dell’intero.
Li abbiamo reinnescati, sovente attraverso il lavoro degli artisti, o il nostro brulicante lavorio intellettuale, e proiettati altrove, trasferiti, rivalutati, rimodulati, scossi.
Quei frammenti non erano stati dimenticati, non ci interessa il tema della rimembranza e della loro maledetta, pigra, memoria fossile, che si cala e sconde nella storia, che spesso è un sacello.
Semplicemente: quei midolli non erano stati visti. Non era stata notata la loro essenza, figuriamoci la loro presenza.
Presenza estetica, quindi strutturale, dato che non siamo vetrinisti, arredatori culturali, non allestiamo set fotografici.
L’oggetto è degno di attenzione, in quanto compiuto e certo, rassicurante?
Abbiamo già detto di no.
Sull’identificazione del valore plastico di un oggetto, a guidare è la sensibilità del recettore, che è un fattore critico, quindi nemmeno soggettivo, se non in parte, ma di certo chirurgico, come ogni pudorata apparizione non prosaica di testo (testo è edificio, e frizione tra edificio e contesto, e altro contesto e metamorfosi d’edificio).
L’intuizione estetica: chi non ce l’ha, vive di accezioni approssimative, le sue idee e sensazioni culturali sono smorzate. Restano gli sports.
La completezza di un oggetto è tranquillante, consolatoria, ed in ciò elusiva, e ben poco istruttiva: spesso scartiamo le buone confezioni.
“Del resto, io ho in odio tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza aumentare la mia attività o animarla immediatamente”, sostiene Goethe.
Questa citazione apre la seconda delle Considerazioni inattuali di Niezsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, nella quale il martello di Röcken si scaglia contro il sapere conchiuso e raggelato, accademico e storico, disincarnato e prigioniero, che impedisce le proliferazioni dello spirito appercettivo, la vivificazione della cosa.
Affievolendola, nullandone le potenzialità.
Non sempre, quindi, l’oggetto va riparato, la fabbrica restaurata.
E l’amore nostalgico e invadente di memoria e rovina è una gran noia, un falso cabaret, che non si muove nella temporalità costruttiva (bergsoniana). Notteterna ai funerari.
Aggiustare poi, è (dovrebbe essere) comporre prima ancora che curare, perché certa costruzione senza tecnigrafo scivola talvolta meno in retorica di compassione, e questa è l’arte che non langue e non cospira contro sé stessa.
L’oggetto, dunque, non è degno di attenzione se è fatto e pronto, definito o affascinante. Esso è degno di attenzione se sei capace di un’attenzione: abbacinante.
Ma a chi non piacerà questo genere di discorso, chi non potrà o non vorrà capirlo?
Gli artisti lo capiranno subito, gli artisti che volano.
Ne capiranno il senso generale, attraverso la comprensione della sue parti o il suono di alcune, anche senza dover esplorare a fondo ogni singolo passaggio e la ridda dei rimandi, intendendone il clima, la dinamica, il senso preservativo-proiettivo.
L’architettura è un problema, per noi, che affrontiamo i temi della depressione e della trascuratezza dell’architettura medesima (come della montagna, quella poco e male architettata), e non una manifestazione e incarnazione dell’arte nella rappresentazione del corpo e dello spirito nella materia – della pietra (Eupalino).
Non capirà chi è insensibile all’arte, al cambiamento, all’alimentazione e al cibo del testo, alla letteratura, alla filosofia.
Non capirà, in sostanza, colui a cui noi non intendiamo mai rivolgerci, perché ci rivolgiamo, sempre e soltanto, a chi è sensibile e vuole ascoltare, e slancia rami, che non son d’albero, lunghi fuori dalle recchie spalancate: che non son cartilagini.
L’insensibile sordo non lo determiniamo noi, né lo puniamo. E’ lui ad opporsi a ciò che vale, e dunque suo nemico, in quanto prono, stracco, pigro, afono.
Codesto soggetto sta (giace) semplicemente nella posizione diametralmente opposta alla nostra, che invece è variabile (quindi talvolta purtroppo gli rotoliamo attorno).
lastra, scheggia, breccia
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L’architettura è un problema, dunque innanzitutto.
Occupandoci dei suoi corpi crepati, perduti, disinnescati, predati, indecenti, sappiamo bene che questa parola è spesso vuota, paradossale, esausta, colposa, latitante. Non sa occuparsi di se stessa, architettura, laddove non mette in campo misure sensibili al proprio recupero trasformativo.
Anche la filosofia, dice Valery dialogando d’architettura, è un problema talvolta, e un falso strumento, acritico, raffermo: come tale, è esecrabile, esangue, povera, va contestata.
Quando accade ciò? Quando essa serve la scienza (o la storia), invece di concepire ribaltamento, spostamento, slittamento (composizione).
Quando la filosofia vale invece, e vive, e sempre sopravvive?
Quando essa assume qualitativamente un valore soggettivo, un valore d’opera d’arte.
La filosofia è una questione di forma, e cosa essenzialmente personale.
In tal modo, essa cambia sempre tutto, come la poesia e la letteratura, e dunque gli aggiornamenti della scienza e le eccezionali accelerazioni della tekne, che spesso persuadono i poco immaginativi encefali computazionali, istericamente adulanti (il neofeticismo tecnologico copre senza celarlo l’offeso livore dell’increativo) non la toccano, perché le grandi manifestazioni dello spirito possono ben essere insensibili al progresso (che nessuno disdegna: a patto di non farne un nuovo mito), in quando lo spirito non è sottoposto a verifica sperimentale, né lo puoi riempire con l’invasamenti d’algoritmo (se poi non sai scrivere o creare e due, puoi affidarti certo ad una macchina, nella tua fallimentare incapacità creativa. Così lei sostituirà egregiamente la tua latitanza qualitativa con la quantità del dato, accrescendola esponenzialmente: bel risultato, ecco dove occorre luddismo).
La cancellazione poi, o perlomeno la riduzione della differenza tra letteratura, critica, filosofia; ovvero tra quelle che qualcuno, superficiale, distratto, può volersi ostinare a considerare quali libere manifestazioni creativa e intuitive e artistiche, contrapponendole alle ponderose elucubrative attività intellettuali proprie di scienziati e schematizzatori del pensiero, è cosa assodata e arcinota, a partire dagli anni ’50 e ’70 perlomeno. La letteratura è ambigua, dardeggiante, iperconnettiva, ultraradicante, autoriflessiva, di tutto si nutre, d’ogni cosa e attraverso gli intrecci tra le cose e i concetti parla, anima, cresce, schioda, disfa, etcetera, è il linguaggio, è la necessità, e la potenza: critica, ancora. Bloom e Blanchot e De Man, tra gli altri. Ci qui non ha pescato, ritorni in studentato.
abbiamo detto nel 2018, tratteggiando la geografia territoriale a deframmentazione propria di dc: curvatura, arcipelago
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Il testo entra ed esce, è una lingua.
Rientriamo.
Alcune architetture sono scheletri prima di scheletrire. Quando tengono la forma e la relazione frizionale col contesto, non li consideriamo affatto morti giovani, né aborti sbozzati.
La benedetta incompiutezza svela le ossature, possiamo scalare le ruggini, come a Pineland, e performare lo Spazio, che è quel che si vuole fare e si fa, ad ogni scala atomica.
Un detrito dunque cos’è, rivanghiamo.
Dipende.
Tutto dipende, nel ragionamento, che è una decodifica delle interdipendenze.
I geologi, i fisici, analizzano le colate detritiche che scendono a valle dai canali.
Gli astrofisici studiano sistemi per risolvere il problema degli Space Debris, i cosiddetti detriti spaziali.
Ma per noi, detrito spaziale può significare anche, e forse soprattutto: navicella spezzata che attraversa il silenzio gelido accedendovi un riflesso metallico che brilla una polvere interstellare senza frastuono: nella nebulosa dell’anima.
Un detrito, o frammento, non è dunque la traccia di una qualche distruzione.
La Distruzione del tempo presente dell’ora.
Crede che il nostro futuro sia breve.
Dice Franchini, introducendo Virgili, che non imita Céline, un altro formidabile frammentatore detritico: ci sono libri che sono come una scalata su una parete dove nessuno può mettere chiodi. Piuttosto retorico anzichenò, ma bene.
Mentre i più malfermi chiodi dell’estetica: van tirati giù, pulire la via. Ma, in fin dei conti, questo è un lavoro per i ripetitori: e noi non stiamo parlando di loro (in parte: perché sono anch’essi dei traduttori, quindi non copiativi).
Giù dalla croda.
Da sempre trasferiamo frammenti da un corpo culturale, o concettuale, o fisico, ad un altro. I corpi sono cantieri in realtà: li operiamo, vi operiamo.
Lo facciamo anche in questa mostra.
In fin dei conti, siamo dei geografi ricostitutivi, nella pratica irraggiante, che non ci fa riluicidare mai una mappa, e invece ne genera di nuove. La mappa che disegniamo non è definitiva: è un indice plausibile dei cambiamenti e delle rinnovazioni auspicate, essa si aggiorna di continuo. Una geografia delle permutazioni dunque, quella che ci contraddistingue, che traccia le vie di una reazione di territorio e paesaggio e cultura e cervello e spirito, che è conflagrazione e currugamento, che si alza e spende articolandosi alla montagna statica, per muoverla ancora, e così via.
Gli ultimi bagliori dei forni di Borca spingon fulische d’argento frammenti d’alluminio fino a Casso: brillano nella notte.
Abbiamo pescato tra le prove e gli oggetti di colata prodotti dal gruppo di artisti invitati da Lorenzo Lunghi a collaborare nel laboratorio di fusione della Capanna Alta all’ex Villaggio Eni: in mostra alcuni di questi oggetti tradotti.
Qui il gruppo intiero: Laura Bouyard, Edoardo Caimi, Kenshiro Caravaggio Carena, Nicole Colombo, Lorenzo Conforti, Davide Dicorato, Oliviero Fiorenzi, Virginia Garra, Katya Kabalina, Nicola Lorini, Lorenzo Lunghi, Alberto Luparelli, Mathieu Molet, Zeno Nan, Inès Panizzi, Francesco Penci, Kamile Pikelyte, Lara Pisu, Lorenzo Riccio, Beatrice Roggero Fossati, Emanuele Resce, Giuseppe Salis, Clara Scola, Alan Stefanato, Enea Toldo, Marta Luna Valpiana, Pietro Vitali.
Qui i nomi degli artisti conferitori di frammenti di fusione n’tella mostra: Lorenzo Lunghi, Zeno Nan, Beatrice Roggero Fossati, Katya Kabalina, Giuseppe Salis, Nicole Colombo, Lorenzo Conforti, Andrea Bocca.
Ceramiche frante delle argille del Boite, cotte nel forno di Nic. Pure questi altri frammenti giungono qui, traslati, pdf alimentare il deposito dei sedimenti ricostruenti.
Questa linea, tra Borca e Casso, è un braccio steso, arto proteso.
Da Borca, un secondo braccio muove a Cortina, Borca è un ragno per dodici anni annidato nella (sua) Tana, con lunghe s-misurate leve interpaesaggio, sta figura sarebbe piaciuta a Kubin, le leve si levano, il Ragno si muove, ile zampe sono innumerevoli, come la nostra capacità di tagliare e riassemblare lo Spazio, legandolo ad altro.
Altri manipoli si stanano sborcano incassano: VERE BESTIE è un gruppo d’arte in ambiente con prospettive transmediali e dialogiche. Il collettivo ad oggi è costituito da artisti emergenti selezionati da Simone Cametti, e sono: Sara Antonellis, Gabriele Ciulli, Niccolò Di Ferdinando, Alexandra Fongaro, Davide Miceli, Alice Papi, Clarissa Secco. Fondato nel 2025 dopo una residenza artistica in Dolomiti Contemporanee, tenutasi all’interno di Progettoborca, dal titolo Litogenesi casalinga, e incentrata sulla tematica della geologia proiettiva.
Le cere perse e ritrovate: son cere di un giorno, venute dall’acqua di San Servolo a maggio con Lacuna, il workshop guidato da Angela Rui e Massimo Barbierato per FLA Plus. Alle quali abbiamo dato altra vita, un prolungamento del senso, un tempo ancora bergsoniano della qualità non sospesa e riguadagnata, che spegnerle subito, a noi che le abbiamo viste per ultimi, ci sarebbe sembrato uno spreco, più che altro ne abbiamo colto lo stato sorgivo e il sospiro, e le abbiamo adottate, vediamo ora come trasformeranno quassù nei caldi estivi.
MET, Sette frammenti di papiro, Medio Regno
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Un frammento dunque è culturale spesso, in questa rassegna polimorfa, un frammento è pezzo di qualcosa di significativo, una sua costola o organo o atomo o arto, che viene da un altro spazio-cantiere, fisico o mentale che sia, nel processatore di Casso, dove prende relazione con le altre parti, per dar luogo ad un oggetto plurimo, superpulsante, acceso.
Schegge di altri progetti o dei loro prodromi, che stiamo sbozzando o plasmando, convergono nello Spazio di Casso, che è un trasformatore delle qualità, in perenne riassemblamento delle stesse, per coinvolgerle, sconvolgerle, mutarle, rifonderle.
Qualcosa viene dal tema degli ex Voto, che sviluppiamo in prospettiva, con Ariele e con Malutta, ora forse lo sapete, poi un bel giorno le vedrete.
Qualcosa viene da Xilogenesi, che in questi stessi giorni migra dall’ex Stazione ferroviaria di Borca alla serra di Perarolo.
Die Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig, 1819
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poi c’è qualcosa d’altro e non poco da dire sulla logica delle scale intercapienti delle inclusioni, per le brecce prisogeologiche e nella pratica antidetritica che contraddistingue il lavoro di non pusillanime di dolomiti contemporanee che di certo non è uno stramaledetto programma raku nè del mascheramento delle crepe nè dei ripristini ineluttabili: quando non le fan vivere lasciagli morire le cose somme rimesse in pace, piuttosto che costringerle nelle gabbie della rigenerazione (culturalmente) asessuata, e non si tratta però d’orgone qua, piuttosto di capacità d’aggregazione delle parti scisse etcetera, ad esempio potrai violentare un albero, col matrimonio del tuo patetico ‘braccio sensibile, ma non l’intera foresta scossa e così via
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