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andrea bianconi – tunnel city
tunnel city – diciamo, per una polisemia della trasformazione dello spazio, dato che il tunnel non è una mappa: l’unica mappa possibile è un processo, inevitabilmente neurale, per fare lo spazio, e non per descriverlo /chi descrive, non fa, non è/.
lo spazio è sempre un vuoto, siderale, come tale una conca.
lo spazio è solo attivo, non esiste spazio passivo: altrimenti si tratterà al massimo di un luogo/stanza/cubicolo.
lo spazio può esser solo acceso, ricerca di potenza /del potenziale/.
è il rifiuto dello stato di fatto, dell’incapacità di generare grappoli e concatenamenti, dell’inerzia contemplativa, dell’assenza d’urgenze /che non è una pace, ma una privazione/.
il vuoto, quindi, non equivale mai ad un’assenza /una carenza/- ma al potenziale, al mezzo, alla totipotenza dello spazio stesso, nelle aperte sue relazioni possibili /e lo spazio non è altro che le relazioni del senso/- relazioni che drappeggiano, con abito di fiamma, la nudità dell’essere della cosa, traverso processi moltiplicativi varii, quali, ad esempio addizioni, gemmazioni, duplicazioni, accrescimenti, imbricazioni, mutazioni – salti del fosso.
/lo spazio, aggiungiamo, è esteso anche quan’è contratto: ecco perchè c’è una distanza enorme, ed in realtà nessuna, tra proust e trakl, ed entrambi sono egualmente sintetici/
e lo spazio sinaptico non è forse un vuoto, in cui il flusso si produce nel contatto distanziale?
per toccare, è sufficiente pensare; per fare, occorre pensare; per pensare, occorre fare una distanza, non ridurla: nulla di meno di ciò, occorre, per toccare, fare, riguadagnare la realtà: pensarla è farla.
/questo non esclude ablazioni e lapsus, che vengono anch’esse, diciamo, a trapungere il cielo dello spazio, questi buchi come cornici passanti e come stelle profonde inchiavardate a dado, come aree del terreno o parti del solaio sprofondati, buchi dentro ai quali, sporgendovisi, si guarda, per cercarvi il di là, il giunto, l’attraversamento, la possibilità di un moto che rompa la coltre statica del falso-tempo immoto /che è un fantasma dello spazio, sua immagine pinta, imprigionata, opaca, irriflessa, come una tenda pesante davanti al vetro freddo che taglia, e di stupore inghiaccia, il paesaggio, liberando le formiche nel cervello/.
la dinamica degli elementi plurali: va costruita, nella distanza, che va poi guardata: e questo vuol dire tirare lo spazio, allungarlo, trasformarlo: ecco perchè le frecce, che sono azioni anelanti e forse già uomini-freccia, non debbono toccarsi, per potere lo scambio, e la tensione dei vuoti -come sinapsi- è la tensione performativa del facitore dell’atto, che non è semplice mappa, o rilievo, e la tensione nel segno è la tensione dell’uomo, non la sua piatta rappresentazione.
il vuoto equivale ad assenza solo nei casi delle topografie-in-grigio /e qui siamo invece in una tipografia, riportata al presente vivo, ora in atto/- nelle rappresentazioni schematiche, nei rilievi acritici, nelle geometrie descrittive.
la geometria descrittiva è, nella sua pervicace evidenza univoca, prossima allo scheletro disidratato del plot, che viene abitualmente cacciato dagli oziosi predatori delle narratività riempitive /affossati su un divano, o appollaiati su un ramo secco/.
un simile vuoto scarico non può che misurare spazi depotenziati, che in realtà, già abbiamo detto, non chiamiamo nemmeno spazi, ma, al limite, scatole. lo spazio scatolare in quanto tale non interessa ai costruttori delle mappe possibili /mappe già attive, s’intende, e mappe d’attivazione/, che non pensano affatto ad esaurire i territori entro a forme compiute, ma li estrudono, esplodono, canalizzano, succhiano fuori e reinsufflano dentro, dato che, abbiamo detto, le mappe possibili tendono alla costruzione, all’elaborazione dello spazio, e non alla riproduzione di una sua immagine inerte. così venti e folate si rincorrono, a creare camere vorticate da elettriche correnti e torrenti impetuosi d’arie indiritte, che entrano ed escono, come aghi le teste di freccia, a cucire e scucire i lembi delle proprie distanze.
naturalmente, la costruzione dello spazio avviene per distruzioni, anche, o intrusioni destrutturanti, che ne fanno la filologia, anche, l’archeologia, anche, trasportandole nel presente attivo, addosso e dentro al quale vengon armate vive: si toglie l’intonaco, mica lo si mette, per liberare gli spazi, tirar fuori i sassi e la storia, riavviandone i sensi: riavvitando all’oggetto il senso.
ed anche disegnare sui vetri /quei vetri/ è uno sfrondare e sfondare lo spazio, per farlo vivo, elettrificando il campo, mettendo in risonanza le parti, i venti traverso la ridda dei canali multiversi, e quell’ululare, aperto, che si spande, sonico liquido // wow — W.O.W. — w o w — //
i geometri descrittivi /marchiamo la differenza/, sempreintonacantincartati, i copritori, che nulla hanno a che vedere, quindi, col tipo ingenuo + astuto del ladro /più darien che petit/, dell’esploratore funambolo, del vorticatore omniverso centralizzante, che sa dar fuoco alla corda /la corda è la linea che marca il fuoco dello spazio/- o, se ha fame, se la mangia, che un canapo ha più sapore, anzichenò, di un rognone.
lo spazio tra gli oggetti, tra le forme, tra i segni, è l’elemento connettore vitale, più importante di quelli.
il bordo e il brodo, in cui galleggiano le croste, i cratoni, gli oggetti, i monoblocchi, i simboli e i segni.
lo spazio tra gli oggetti è la linea infinita, intera ed esplosa, delle continuità possibili, e delle relazioni essenziali: ciò che collega è, a differenza di ciò che viene collegato, che alle volte non è, o al limite non è altro che – oggetto passivo, chiuso, immemore, statico, muto.
i sassi nella testa non sono affatto oggetti refrattari e statici, e volitano, liberi da inani tutoraggi, o perlomeno orbitano, dato che non vogliamo escludere i vincoli gravitazionali, che anzi inarcano lo spazio.
i sassi nella testa /eran nella tasca/ vengono spostati e mossi, deliberatamente, per sempre, e le combinazioni dei loro spostamenti, che possono parire d’inezia, sono infinite, e la loro reale dimensione non è nota, come l’estensione di un arco di luce, o d’ombra, rispetti ai piani, che poi son curvi, e quei sassi sono porte, se una porta è possibile, e le porte prima van poste, quindi aperte, o chiuse, o murate.
non c’è alcun relativismo in questo dire /pensare/, ma una scienza organica del rapporto inclusivo: e l’estroflessione spinale, i midolli raccolti in una conca dorata cresciuta come montagna dal suolo secco polveroso, e con un ramo accanto, il primo, già una freccia, impaziente, dell’essere.
ora nel vecchio spazio nuovo ci sono linee -i tiranti della possibilità- specchi e gabbie e ingabbiamenti specchianti, e fughe all’indietro, e in avanti, nella linea-spazio-distanza fuor dal riflesso, e ruotata: a farsi bocca-canale /funzione aspirante, funzione proiettante: il doppio cannone, che fa e disfa, le distanze, impedendone la lettura piana/, e ci sono costruzioni imbastite come città canalizzanti, crivellate di ingressi ed uscite, crivellata la stupidità immota dell’oggetto chiuso, privo di pensiero /pensiero è immaginazione, azione, realtà: la realtà (nel senso) è l’immaginazione in azione/.
da questo vuoto esce ancora, però, la radiazione: esso è propulsivo.
certi buchi d’universo hanno invece per bocca /ancòra/ un orizzonte degli eventi: una gran bocca, ma in questo caso dal tunnel, chiuso, nulla puà uscire, e lo schiacciamento interno /spaghettificazione/ porta al collasso delle solitudini.
mentre qui pure, le gabbie, ancòra, ma anche quel vaso nero a parete, vengono schiacciate, grazie al principio d’orizzontalità numeraria bidimensionale, da quest’insistita, chirurgico-terapeutica, molteplicità dell’uno, che, per fare totale lo spirito dello spazio /ecco cos’è il tunnel: lo spirito dello spazio/, ne uccide una dimensione.
ma qui non è un quadrato a parlare: ed ecco che l’oggetto in numero, potenziando ipnotico una prospettiva lunga, di fiancata, cancella la profondità, con ciò scardinando ancora la logica del rilievo descritttivo, per così accentuare, accendere, la fisicità ripensata del vuoto rispaziato: e, quindi, togliere la profondità non equivale affatto a fare la piattezza, e lo schiacciamento induce invece la fuoriuscita del liquido connettivo, quel midollo spaziale, che è una freccia numerosa: le frecce, gli uomini, le cose, le direzioni /come nel romance/
stampi e caratteri innalzati e sversati mobili /senza i chichè/- a mazzi di carte o case o cubi, ultradimensionali, ogni parete un approccio e una presa, le presa per le connessioni elettriche, nella visibilità real-figurata dello spazio possibile /che è dato da: una parte di fisica, una parte di costrutto concettuale-immaginifico/, è così che i muri vengono risnudati ed estratti e ripopolati, dalle figure abitanti, dove le triadi mutageniche /uomo/uccello/aereo/ si animano e trasformano, le forme cangianti, e gli stessi neri massivi si originano infatti a partire da un moto, o gesto, o segno, di contorno sintetico, e non son altro da quello stesso, ma uno sviluppo del suo percorso di linea, ed il tunnel, eccolo:
non è forse il pieno del vuoto? non respira e pulsa come un cuore trapassato dai cieli? e se non vi fosse, per primo, questo grande spazio in potenza, il vuoto, come potrebbero poi venire i pieni? su cosa poggerebbero?
senza pagine, libri, pareti e muri, dove fissare le tracce del pensiero in atto?
dove ruotare gli oggetti, senza campi bianchi di proiezione?
dove ammassare, profondi, i neri?
e allora, se è dal vuoto si fa il pieno, come potrà mai esistere la gabbia, come potrà griglia imprigionare spazio?
non può: infatti, né esiste gabbia alcuna.
ma una serie di linee, invece, che il vuoto taglia allaga ed immerge di sé, attraverso le foreste poste di segni d’uccello /son versi, o canti, queste parole-segno a foreste, richiami dell’uomo che canta, o uccello, anche meccanico alle volte -aereo/,
segni che sono canti e tecniche insieme: teoria e tecnica dell’edificazione dello spazio reale e del suo suono,
spazio che viene potenziato traverso la riduzione eidetica composta per teorie supernumerarie, a risvelare i canoni che pertengono all’essere dello spazio: il vuoto attivo.
gianluca d’incà levis, novembre 2014