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le accuratezze dello spirito e il pubblico indifferenziato: cultura o mercato?
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Venerdì 27 febbraio si è svolto presso il Nuovo Spazio di Casso l’incontro-conferenza dal titolo Cultura: un motore per la montagna, curato da Dolomiti Contemporanee.
Un centinaio le persone giunte a Casso per l’occasione: non un pubblico generico, e invece un pubblico attento; un pubblico attivo.
Lo Spazio di Casso è un Centro per la Cultura Contemporanea dalla Montagna, avviato nel 2012 (e chissà se riusciranno a farcelo tenere aperto), nel quale si lavora per costruire delle immagini critiche del territorio, del paesaggio, delle prassi di senso che l’uomo vi attiva.
Non si arriva per caso in questo luogo, non vi si inciampa: ci si viene apposta, bisogna essere determinati a raggiungerlo.
Solo un pubblico non indifferenziato può giungervi dunque: per capire cosa intendiamo con questa espressione, vi invitiamo a leggere la seconda parte di questo testo.
L’incontro di venerdì ha avuto a tema il caso di Dolomiti Contemporanee a Casso, l’esperienza e il futuro di questo Spazio nuovo. Ma, più, in generale, gli ospiti relatori si sono confrontati, ognuno dalla propria specifica prospettiva, sul valore e sul significato della cultura, di una cultura innovativa, rispetto al territorio.
La conferenza è durata tre ore.
Tra i temi affrontati: cultura, territorio, montagna; il Concorso Artistico Internazionale Two Calls for Vajont; l’attività svolta dal 2012 ad oggi da Dolomiti Contemporanee a Casso, e le prospettive future; socialità e socializzazione dei processi avviati; impresa culturale e impresa economica; modelli di sviluppo nella valorizzazione del territorio e delle risorse, e nella proposta e fruizione turistica dello stesso; sistemi di valorizzazione del potenziale delle Dolomiti-Unesco; arte e creatività, come generatori di nuovi spazi ed opportunità; progetto culturale, impresa culturale, rigenerazione e rebranding; pericolosità delle pratiche omologanti, necessità di strategie e prassi innovative; necessità di integrazione tra le azioni, nel quadro di una governance ragionata del territorio; necessità delle reti partecipate; rapporto tra tradizione e innovazione, due concetti che coincidono: ogni tradizione è il deposito di un’innovazione “rivoluzionaria”, che ha saputo generare qualità e profitto per il territorio, aggiornandone la cultura; memoria e prospettiva; memoria rigenerata e memoria paralizzante; antropologia dei luoghi; funzionalità delle prassi rigeneratrici, superfluità dell’arte come paramento.
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Ecco dunque cosa intendiamo per pubblico indifferenziato.
Il pubblico indifferenziato è una opaca massa atrofica: esso non è composto da singoli individui, dotati di una coscienza critica personale: esso fa astrazione delle capacità particolari, che vengono escluse (non sono gli atomi a fare il composto). I moti a cui risponde un tale gruppo, omogeneo, sono di carattere massivo: come allo stadio le individualità si fondono in una massa superpersonale, anche all’interno dell’indistinto gruppo costituito da un alto numero di soggetti disposti a lasciarsi condizionare dalle tecniche della comunicazione commerciale del mercato pseudo-culturale, si assiste al riassorbimento delle soggettività nel corpo comune del gruppo-massa condizionato, all’azzeramento della responsabilità di valutazione e giudizio personale dei contenuti o dei prodotti culturali proposti (o imposti).
Tale condizionamento risulta possibile proprio perchè l’assenza di attenzione critica in soggetti che non han tempo né attitudine per sorvegliare sé stessi e per misurare la qualità delle proposte, apre spazi, vasti e caotici e debilitanti, ai venditori-condizionatori dei prodotti apparentemente culturali, che sono invece prodotti essenzialmente anticulturali, e addirittura decisamente pericolosi rispetto alla formazione di una coscienza culturale e alla valorizzazione del patrimonio d’idee e d’opere prodotti dall’uomo all’interno della società e della cultura, nell’alveo della storia (storia in azione).
In realtà, l’idea stessa di pubblico porta in sé quest’idea di indifferenziazione del giudizio da parte del gruppo amorfo, e, quindi, della prevalenza del numero sull’individuo, della quantità sulla qualità, della fruizione passiva sull’elaborazione consapevole, della spettatorialità sulla partecipazione attiva, e via dicendo.
La cultura non ha un pubblico: essa si rivolge alle singole coscienze, non ai segmenti di mercato, ed ha il potere di creare e accrescere legami, attenzioni ed attrazioni, sulle persone attente, e non suggestioni, fascinazioni e stupefazioni, nelle persone distratte e disposte a subire profondamente le influenze superficiali.
(queste persone in genere usano le crocs: amorfe dalla testa ai piedi).
La cultura non esiste senza la partecipazione personale e la presa di posizione intellettuale del singolo, che è sempre determinato ed attento a cercare, e solo per tale motivo trova, nella rielaborazione, che comporta uno sforzo, che non esiste senza un’ardente motivazione.
Viceversa, chi trova tutto facilmente, in realtà nulla trova e trattiene in sé, con il risultato della mancata assimilazione di ogni traccia di contenuto culturale.
Il pubblico/massa è dunque un organismo composto da cellule culturalmente pigre.
Facciamo un esempio idiota e banale, banalizzando noi stessi, così che non si abbia a dire che, presuntuosi, ci eleviamo da noi stessi al di sora di una tal soglia: ci sono persone -molte- che, qualche volta, persino amano l’arte; qualche volta -diciamo quando non c’è una partita di calcio o un reality alla televisione- trovano (si fa per dire, dato che non cercano) una domenica libera per andare, persino, al museo.
A vedere una buona mostra? No. A vedere la più pubblicizzata. Vanno al cinema. Vanno al multisala, per il blockbuster dell’anno.
Il pubblico indifferenziato si accende a fatica, e solo se gli si propone uno stimolo gastronomico: màngiati l’arte; abbùffati d’arte (magari una o due volte l’anno).
La bulimia quantitativa, in qualche modo, combatte l’assenza di spirito critico, di voracità conoscitiva: ecco la pigrizia dello spirito.
Evidentemente non è una fame quella: è uno stimolo prodotto artificialmente, attraverso la preparazione di piatti e ricette (ricettazione) a bassissimo valore nutritivo, ma ad altissima potenzialità trattiva, di superficie.
Se, nel cast di un film, si trovano dieci attori superstar, il film sarà inevitabilmente pessimo, e la massa (non i singoli), affascinata e succube, andrà, quasi sicuramente, a consumare questo prodotto.
Un tale film viene costruito per vendere, non certo per edificare.
Nel frattempo, nel piccolo cinema del paese, la rassegna su Tarkowskij accoglierà poche persone, che staranno sensatamente al freddo, su poltrone magari scomode (e staran bene, a vedere qualcosa che hanno cercato loro, e che non li ha scovati: gli spettacoli della cultura di massa sono battute di caccia: la caccia grossa al pubblico grosso).
L’uomo che vuole la cultura, e l’arte, le vuole sempre, nemmeno può non volerle, perchè ha in sé un’assonanza, un’eco, che lo inducono a cercare. L’uomo capace di stupefazione, è il bambino-artista-filosofo: non è possibile interrogarsi una volta al mese sul significato delle cose, dell’essere: c’è chi si interroga, e chi non si interroga.
Facendo gli aristocratici (compensiamo con questo manicheismo la banalità popolare di prima): c’è chi ha lo spirito, e chi non l’ha (io non vado in crocs).
Spesso, chi non si interroga và a vedere le mostre, i prodotti-mostra, le mostre-cinema, le pessime mostre.
E, facendo ciò, costui confina l’arte all’interno di alcuni lazzaretti (Musei), dove essa è agilmente controllabile: così, si può esser certi di non trovarsi in imbarazzo, imbattendovisi inaspettatamente, trovandola fuori (dove non la si saprebbe comunque scovare).
Ma, l’arte, è sempre e solo fuori (un fuori che entra, insieme ad un dentro che esce: il loro incontro).
Chi non si interroga, non cerca, e aspetta una mostra stupefacente, per stupefare finalmente sé stesso, per un istante appena.
Mentre il thauma è interiore. Da questo punto di vista, non esiste alcuno spettacolo possibile. E nessun pubblico ammissibile, come categoria irresponsabilmente massiva e generica, e condizionabile traverso i poteri (dell’immagine pure, delle mesmerizzazioni commerciali). Ma, solo, l’urgenza della domanda, e quella della condivisione dello stimolo
E invece, la capacità di stupefazione non è intrinseca, nel pubblico indifferenziato, che è passivo, e per questo motivo può essere comodamente condotto a fruire (sciabattando) di qualsiasi spettacolo, anche pessimo, anche perfido.
La passività dello spettatore, del visitatore, è un virus d’inerzia, un prolungamento dell’accidia, che si prende la pausa d’un attimo, per rifiorire poi, più gonfia, più sterile di prima.
Il pubblico indifferenziato và a vedere le mostre nei grandi palazzi storici, come ad esempio la basilica palladiana di vicenza, culle d’arte e civiltà, diabolicamente trasformati nei nuovi-antichi centri commerciali dell’arte gestita come un allevamento, tramite l’ammassamento casuale di feticci artistici, di oggetti comunicanti, ovvero delle opere stesse posterizzate, trasformate in merce, l’aura culturale loro trasformata in aura mediatica, al servizio di un concetto di arte strumento del marketing consumistico, invece che di espressione formativa di cultura. Il pubblico indifferenziato è uno strumento del profitto di alcune imprese private e dei traffici mercantili, che utilizzano l’arte come nuova merce dal forte potenziale attrattivo, non per il valore qualitativo delle opere in sé, ma per il valore quantitativo delle opere-in-branco, che conquistano e affascinano il pubblico trascurato e belante grazie alla enormità centrifuga della potenza dispiegata, alla sarabanda delle mille luci, all’orgia oscena e formidabile, del tutto priva di concetto e di cura, che è lo spettacolo dell’arte venduta, e dunque lo spettacolo deprimente dell’arte svenduta, sfruttata, accozzata, ridicolizzata, nella pornografia assoluta della copula forzata tra i protagonisti artistici dei secoli e dei millenni, imprigionati in una cattività collettiva che stupra ed offende le personalità eccezionali d’ognuno (personalità che eran sorte per e nella differenza, che è il contrario dell’omologazione), e che nulla ha a che fare con un concetto critico e responsabile di curatela, di ricerca intellettuale, di ragionamento culturale, ma, piuttosto, ce l’ha con i vagoni merci, con i paesaggi reificati, con le coltivazioni intensive, con il trasporto animali (ma qui forse stiamo tornando a parlar del pubblico…).
potremmo dire: opere al macello, per un pubblico animale: e quindi, perfino: antropofagia culturale.
Il pubblico indifferenziato non è del tutto colpevole della propria sensibilità critica insufficiente: le mostre indifferenzianti sono colpevoli di non formare, istruire, proporre, alcuna misura critica, alcuna cultura, e, invece, di impedirla, di toglierne. Esse, traverso la superficiale ipnagogia psichedelica degli affastellamenti casuali, colpiscono, invece di istruire (l’urto, invece dell’onda), ed in ciò sono nefaste.
Le cattive mostre non sono solo brutte o ridicole o paradossali o triviali: sono pericolose e dannose, perniciose.
Il criterio generativo che le informa (di cura)?
Simile o uguale a quello del generatore automatico di titoli di mostre di goldin, che riproponiamo qui, per chi è riuscito a salvarsi dal rinvio a quell’altro post, insieme a quest’altro articolo, che potrà anch’esso forse far riflettere, qualcuno.
naturalmente, quel sisma che abbiamo avvertito l’altro dì, ha un’origine chiara: sono i gran maestri del passato, artisti e faraoni, che si rotolano nelle tombe, insieme a palladio, dopo aver saputo d’esser stati accozzati in un simile selvaggio modo, tutti insieme stipati nel carro, di carnevale o pel mercato bovino, mentre il nano da giardino ci guarda. e ride. da dietro (acculatezze).
gianluca d’incà levis