4 dicembre 2012

Vas: un’ipotesi di rivitalizzazione attraverso arte e cultura per l’ex Cartiera Il complesso dell’ex Cartiera di Vas costituisce un’emergenza architettonica estremamente significativa. Il sito è connotato in modo peculiare e risulta interessante dal punto di vista dei volumi, degli spazi disponibili e dell’impianto urbanistico, rispetto all’idea di un suo possibile utilizzo
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lavori che vanno, corteccie che restano

 

Come i lavori vengono e (talvolta) vanno -mentre alcuni soggetti rimangono fermi chiodati / corteccie non è un refuso: perfino buzzati, che non è sterne (primo monito: sapere usare la lingua).

L’organicismo psicoorodinamico culturale terrazielato vs. i grigi corpi anticontemporanei, figli del timor contraccettivo che non sa relarsi. Dialettiche e afasie dell’esserci nella cura che spinge, o sta.

Francesco Zanatta, If you have a knot you can not undo…, 2019, Collezione privata.



Dolomiti Contemporanee è un camino-cratere.
Ciò che vien projettato fuori e sparso per l’atmosfera non son polveri gas o gli effimeri lapilli, ma i concetti e le idee laboriosi, che risalgono dalla camera magmatica su per na lunga generosa canna scolpita d’organo, scolpita dall’uomo.
Così, la montagna non giace catenat’al palo, e invece amplifica sé stessa, rampa, e lo
slancio critico projetta e fonde le rocce pesanti con le arie leggere: l’ascensione della litosfera al zielo.

Ma non sull’architettura del cono ci soffermiamo adesso, e invece di alcune nubi ardenti e di altri processi di rilascio ed emissione di materie rosse e grigie di composti innumerevoli frammischiati, che producono segnali e fuochi visibili dallo spazio profondo, e questo avviene una volta che la caldera è stata riattizzata, dato che le grandi depressioni non son che le croste inattive di cui picconiamo via i tappi: e fuori questi nuovi getti di lava fuori.

In dieci anni di attività, sono centinaia, migliaia oramai, gli artisti che, insieme a tutti
gli altri nostri alleati costruttori non compilativi, son venuti a lavorare nei campi alti qua, per fare di questa montagna -alle volte dormentata stesa rizzontale, destituita delle creste o piallata in vetta: viva i panettoni- questo cantiere plastico in rotazione (ah, pareti a torciglione).

Irane coppola, parete, 2019, collezione privata.

La Residenza, infatti, insieme all’idea che azzanna, è il centro del moto produttivo-propulsivo, d’ogni tettonica e bradisismo e subduzione e corrugamento degli strati ricalibrati.

Questa faccenda funziona com’è ovvio che sia.
Ovvio per alcuni, mica per tutti.
Chi sono dunque gli artisti contemporanei?
Esseri solerti e accesi che studiano le cose, approfondiscono la ricerca, rendendole ancora vive queste benedette cose, riattizzandol’e spingendole, ste cose che alcuni altri bigi piantati dan per scontate o conservano nelle urne e nelle teche immote. Gl’artisti ne rimettono in circolazione l’energia, energia che quegli altri epi-metei mai vedono (come il dono), costoro che mai san rigirare le carni fresche nelle impanature della ristrutturazione cellulare: e quanto ci annoiano, mentre impoveriscono la terra e lo spirito (nuocciono).

La ricerca non è che un metodo intuitivo logico relazionale (strutturalità dell’estetica). Come la cultura della rigenerazione, che pratica le aperture (anche nelle teste dure,
talvolta).
Gli artisti sono carichi e molto (scarichi non li invitiamo: se sono scarichi non possono venire: devono andare a prendere le vitamine ricostituenti – darsi la cura).

Sei fasi, nessuna scontata (visione, ricerca, lavoro, impegno).
Della sesta, quella che non sempre viene (le altre sì, con noi), diciamo ora.
Gli artisti (1) vengono qua su, a scoprire lo spazio e le sue caratteristiche: la psicoorodialettica culturale ercinica.
(2) Noi, che viviamo qui e sappiamo dove viviamo e sappiamo usar le picche mentali (braintooling), abbiamo delle cose da dire e da fare (è lo stesso: dire è già fare, (parolaprima) per questo spaziopaesaggio che sempre va costruito o è morto o tumulato muto; che dunque non va semplicemente e oziosamente conservato (troppo facile, un grave disimpegno questa cautela), noi li accogliamo, proponiamo e mostriamo loro i temi innumerevoli e varii e li mettiamo a parte delle riflessioni articolate e dense e degli ampi teatri del pensiero eversivo e non descrittivo. Loro scelgono dunque, tra questi spunti
(3), e cominciano ad applicare, terpretare, sviluppare, divampare.
Trattano i temi, che stanno aperti nelle piattaforme tematiche e di senso (la montagna anticoronata; cantieredivaia; Tiziano Contemporaneo; le benedette Olimpiadi; così, giusto per dir di alcuni filoni).
Quindi realizzano l’opera (4).
Ecco che esse opera sale in superficie, emerge, la mostriamo (5).
I lavori vengono presentati nei cantieri minerari: le fabbriche abbandonate, fatti luoghi di scavo e catapulta,  siti ritrovati nel divenire alacre responsabile antiretorico, di un tempo trasformativo (proprio non ci riusciamo a dire: mostre) che sconfigge i peltri, e chi lustra le coppe vecchie ossidate.
Questa fertilità piroclastica dunque riammanta il paesaggio, nuova roccia solidifica,
le orografie mutagene (una biologia critica litificante: occorre l’uomo). E, naturalmente, è in modo deliberato che si praticano queste esperienze snudanti crescitive (Faas a Creeley).

giacomo segantin, sassaia in progettoborca, opera premiata in Cantica21.

Le opere vengono viste: alcuni le capiscono, altri no.
Noi non capiamo quelli che non le capiscono.
In realtà non è vero: sì che li capiamo, eccome, è facile, porelli.
Semplicemente, non li ammettiamo nel regno dell’essere consapevole. E’ gente quella che non vuole impegnarsi, che rifiuta la proposta di dialogo: e in questo rifiuto d’incuria vi è uno schiaffo e un’offesa. Ecco, il cavaliere è sempre un sensibile offeso, quando non gli vada di ridere, e voglia metter fuori l’igienico cipiglio. Mai bisogna permettere ai chiusi di sopraffare il principio generoso d’apertura, mentre questo si offre.

Non si ammette la tracotanza dell’ignorante (colui che ignora, nei due sensi, e il peggiore è di certo il secondo, proditorio; non tanto il “non sa”, quanto il “non vuole sapere, saperne”), né la disattenzione perniciosa.

Se l’artista, col suo lavoro, guadagna valore e spazio, valore allo spazio, spazio al valore, traverso sensibilità, riflessione, ricerca, intuito, approfondimento: ecco che invece chi non lo capisce è il contrario di lui: cieco, pigro, immobile, maleducato, sfrontato. La sua plastica, una lapide.

Un traditore della virtù che dona (dai, il con-sentire di Pasqualotto; l’esserci nella cura -die Sorge- raggruppatore e implementatore del senso; e così via).

L’artista è capace e generoso: dona (se non è un caìa, quelli qua no, non entrano, gli ambiziosetti opportunisti). Chi non guarda con la stessa sua attenzione, invece, è tignoso e orbo e gretto, e rifiuta IL DIALOGO: vergogna, all’attenzione si risponde con altrattanzione, sempre.

L’opera mica si offre allo sguardo ebete: vuole essere presa, è una domanda, esige risposta.
Ci vengono in mente le accidie del gregge, il risentimento del moltone seduto nel buio angolare (Nietzsche): il demerito.

Ma insomma, tra lupi e pecore, a questo punto che accade?
E cosa accade all’opera?
Alle volte, essa scompare o quasi. Finisce in un magazzino, in una soffitta, in un luogo cieco.
Una tristezza.

Altre volte invece, in ragione del lavoro che continuiamo a fare noi, o che continuano a fare gli artisti stessi, il lavoro va (6).

Dove cazzo va?
Nel mondo.
Dei cieli.
E’ vero, l’espulsione dell’opera è spesso liberatoria: una volta che essa è uscita, è anche finita. Ma non della compresenza di nascita e morte vogliamo dire qui, e nemmeno di catarsi e conato poietico.

Parliamo invece della cura, biamo detto, e della sorte, e del moto, che non è nel fato, ma, ancora, nel lavoro, cingolato.

simone cametti, un lavoro da progettoborca natale 2019, collezione privata.

Ed eccoci alla cronaca.

Proprio in questi giorni, alcuni artisti che hanno lavorato e lavorano in DC, hanno potuto muovere i loro lavori, che per un po’ eran rimasti fermi, e da nessuna parte stava scritto che si sarebbero levati ancora.

Ne siamo felici, tutto qui, e lo stiamo dicendo, e li ringraziamo del loro impegno insieme a noi, dato che sono dei VALOROSI, e che i loro lavori sono stati (nei cantieri, nelle exposizioni) e sono (senso non perde senso; il Peso non Dorme) importanti.

Per cui, il fatto che queste opere siano state ancora una volta RICONOSCIUTE, è una bellezza autentica: danziamo coltelli.

Eccoli.

Irene Coppola ha realizzato PARETE 46°24’49.7”N 12°21’47.3”E nel 2018, per la
mostra Brian Tooling al Povero Forte di Monte Ricco.
Povero perché non dovrebbe esser chiuso o mozzico, sto deboleforte, e anche perché il Contemporaneo, vettore dell’aperta intelligenza che intavola e offre, di cui abbiamo detto sopra, là tra i magnacarte, mica è stato ben compreso.
Non generalizziamo affatto: non siamo mai schematici o banali.
Molti han visto e aiutato e contribuito a fare, a Pieve, nel triennio in cui abbiamo agito nel Forte: anche a  tutti costoro, non pochi, persone brave, aperte, nella disposizione di ricevere e quindi capaci di dare, diciamo grazie, naturalmente. L’abbiamo fatto sempre. Conosciamo l’educazione.

Ma altri, e spesso si tratta dei capi o mezzicapi di alcuni enti potenti (*), si son dimostrati impotenti: nel capire.
E, Cristo, se uno è impotente nel capire, lo è anche nell’essere, e questa è una pena (pubblica, mica privata; quando una mentalità privativa regge un ente, il cui unico senso
d’essere dovrebbe essere: dar sviluppo ai processi avviati – anche per non buttar via tempo e risorse, detta così la capisce anche l’economo).

Diciamoglielo dunque, dato che il Forte è Una Cosa Pubblica, e lo Spirito una Forza dell’Uomo.
Reale Forza Accumulativa: chi non ne ha, è colpevole di recar povertà agli altri. Le strettoie della mente avara.
Mentre di qua valore è ricchezza, di là paratie e stitichezza.

Perciò, alla malora l’ignoranza refrattaria, e la sua ignobile, inconsapevole, oltraggiante roganza.

Ma di queste altre cecità neppure ci occupiamo ora: preferiamo stare tra i vedenti, questa è la via che abbiamo scelto: la via ontologica selettiva.
Magari domani torniamo a Diderot e Montaigne – o a Vollmann, che è il Montaigne che si meritano i perbenisti macilenti chiodati al suolo, suolo che non è ancora la terra grassa ma una crosta scabra. Naturalmente, chi sia Vollmann questi mica lo sanno, e nemmeno Walser, immaginiamo noi immaginiamo: ecco la differenza). E allora, in sto grettume, di cosa ci lamentiamo mai? Ma non c’è alcuna lamantazione: diciamo dritto.

Parete proviene dalla Polveriera di Monte Zucco. Non è stato acquisito a Pieve, questo lavoro, nessuno lì ha avuto l’ardire culturale di sceglierlo. Mica era obbligatorio, s’intende, non occorre dirle ste banalità, non fare il ragiuoniere.
E però chessò, un Ente Intelligente avrebbe potuto leggerlo per quel che è, sto lavoro: un’ottima ricerca su sta terra nostra. E invece se l’è preso Florian Conrad-Eybesfeld, che è un collezionista austriaco.  Valore al valore, là. E, qua: non saper accogliere e fermarlo, il valore.

Ma pasturiamo dunque noi del livore? Macchè, va là, che siamo la pace, stai buono, e poi comunque il male è più vasto, ascolta ancora.
Fuori uno.

Nella stessa mostra, Brain tooling, c’era questo quadro di Francesco Zanatta, If you have a knot you can not undo…
Il titolo è in inglese, ma l’opera è un omaggio fiammeggiante alla personalità, alla vita, al lascito storico ed estetico, di Romano Tabacchi, sto tipo originale di Pieve di Cadore, di cui molti oggi si dicono amici, si dan queste arie: e avremmo voluto vedere come li trattava lui, sogghigno, quanti ceffoni.
Ora, il lavoro di Francesco Zanatta è stato acquisito da un bellunese, che di Romano Tabacchi aveva mai sentito parlare in vita sua. Mentre a Pieve di Cadore, cos’han fatto i suoi compaesani, gli apprezzatori di oggi? Lo scorso agosto (2020) hanno dedicato una mostra alla memoria di Romano Tabacchi.
E secondo voi ci han pensato, ste cime, a includere in sta mostra l’omaggio sensibile di Zanatta a Tabacchi, che aveva commosso noi e i suoi parenti, o una delle altre dieci opere almeno realizzate dagli altri artisti venuti con DC al PianoForte, tutte incentrate su Romano?
Lo sapevano bene, per quanto possano, questi signori, che noi lavoravamo seriamente, per anni, su un’idea di riuso di Batteria Castello, e quindi sulla figura di Tabacchi, indissolubilmente legata a quel rudere trattivo, che era murato e che abbiamo riaperto noi, per scavarne i sedimenti vivi: loro se l’eran scordato per benino.
Perché dunque ci hanno ignorati? Deficit attentivo? O qualche pruritello periferico?
A cosa è servito il contemporaneo a Pieve di Cadore, ci domandiamo? A qualcosa è ben servito, lo sappiamo, e l’abbiamo spiegato e scritto decine di volte, cosa stavamo lì a
fare (qua per esempio).
Noi sempre intavoliamo e apriamo e cerchiamo e spieghiamo. Anche ai crani resistivi. Ma chi non può o non vuole vedere (è la stessa cosa), non lo schiodi.

E così, in questo modo, si fa un errore, e si perdono le opportunità. Le perde il territorio, sia chiaro, mica noi. Noi non nutriamo mai ambizione personale. Non c’è scontro tra fazioni qua, non siamo al giardino d’infanzia. C’è chi (noi), vede, proietta, produce, offre, apre (abbiamo centinaia di partner; abbiamo un’idea ampia di Cultura, e un’altra idea della paralisi). E chi, dicendosi partigiano della propria terra (che è anche nostra), si chiude in sé, e in quel vernacolo soffre ogni genere d’apertura foresta, che turba la sua pace d’inerzia: questo tipo è giuovane o vecchio?
Quindi noi ci riteniamo forse più il territorio di loro?
Non dir scemenze, siamo gente dalla cultura adulta e consapevole. Noi siamo un’opportunità, non un sistema autoaccentrante: siamo organici, pretendiamo inclusione. Rimane il fatto che chi ha una mentalità libera e aperta ci capisce, con questi si lavora bene, sempre. Chi ha la mentalità artritica da presidio, invece, sta rigido in garritta, e fa assai meno di quel che potrebbe (non parliamo mica di gente stupida: chi o è stupido oramai, al giorno d’oggi? Parliamo di una psicologia non votata alla trasversalità operativa, di una modalità che se dice RETE intende: un mezzo per la pesca. Noi invece con questa parola intendiamo: una cosa ben fatta e buona e ampia, illuminata bene).

I lavori che gli artisti BRAVI han dedicato a Tabacchi avrebbero dovuti venir richiesti, e
portati in quella mostra, non c’è dubbio su questo: o c’è??
E invece, buonanotte alle reti intelligenti e alle interazioni culturali e al contemporaneo varsore.
Tra l’altro, potete scommetterci: gli artisti, che sono entrati con noi e non con altri in Batteria Castello, hanno subito capito Tabacchi, che li avrebbe a sua volta capiti, perché i creativi non sono magnacarte, e l’interesse dei nostri era autentico, umano ed estetico. Guardacaso, e di certo sarà un caso, la celebrazione uffiziale di Tabacchi a Pieve è venuta
dopo tre anni di lavoro nostro buono su questo tipo. Non stiamo certo dicendo che Tabacchi l’abbiamo inventato noi, non dire idiozie, abbiamo la misura precisa di parola e pensiero. Diciamo invece che noi ci siamo. E che purtroppo alcuni altri invece proprio non ce la fanno, ad esserci. Le occasioni perdute.

Come per Tiziano Contemporaneo, con quindici lavori ottimi realizzati da artisti capaci per le mostre del Forte.
Un esempio solo tra i molti, questo, di Fabiano De Martin Topranin.
Non sarebbe stato bello e giusto prenderselo e tenerlo a Pieve, un lavoro del genere? Bello per il paese, per l’artista, per la cultura, che avrebbe saldato passato a presente e futuro, attraverso un lavoro ottimo, molti lavori ottimi. Diamine, alcuni li han capiti quasi quanto le foto delle ballerine in tutù.

E dunque, li si sa vedere, sti lavori? O (a parte l’analfabetismo culturale ed estetico) c’è un qualche riposto risentimento quasinconsapevole nei confronti del Contemporaneo, a covare nell’animo di qualche custode delle tradizioni, magari bravo e buono pure, ma oggettivamente non predisposto al volo radente? Non sarebbe la prima volta che troviamo gente con un q.i. buono o quasi, compagnato da una totale o quasi refrattarietà al valore trasformativo (e non solo descrittivo) della cultura contemporanea.

Ma che diamine ci avete chiamati a fare colà? Avete capito o no? Non è una pretesa la nostra, in alcun modo. Non dateci degli arroganti (prevengo le pochezza di taluni che conosco). Noi siamo costruttivi e logici e lavoriamo bene.
Buonanotte dunque, e viva la Casa di Babbo Natale (logica critica della qualità e della differenza).
E due.

Terzo lavoro che va, usciamo finalmente dalla Pieve dei magnacarte (ma anche degli amici intelligenti e sensibili che han saputo apprezzare progetti visioni e opere, aiutandoci a realizzarle), e portiamoci a Corte, in Progettoborca.

Qua, nel 2019, Giacomo Segantin decide di approcciare, delicatamente, il tema della ruina di Cancia, la frana cosiddetta (da chi va un poco a spanne) che  grava su Borca di Cadore.
Lo fa con Sassaia, un’installazione, che connette due paesaggi.

Quest’opera, che consiste in una fotografia dell’installazione, è stata selezionata in Cantica 21, inziativa congiunta di MAECI e MiBACT, volta alla promozione e valorizzazione dell’arte contemporanea italiana, che sostiene la produzione di opere di artisti emergenti o già affermati, esponendole negli Istituti Italiani di Cultura, nelle Ambasciate e nei Consolati. Le opere selezionate potranno essere ospitate nella collezione di arte contemporanea della Farnesina.
Gli artisti ricevono anche un sostegno economico, per na volta, bene.
Con Giacomo fa tre.

Tra gli altri giovani artisti (under 35) premiati in Cantica 21, ve ne sono altri due che, in altre circostanze, hanno già collaborato con Dolomiti Contemporanee: diciamoli: la stessa Irene Coppola, e Giovanna Repetto.

Tra gli over 35, anch’essi già passati in DC, premiati anche Domenico Antonio Mancini, Pamela Breda, Cristian Chironi, Elena Mazzi, Luca Trevisani.

Segnaliamo poi anche Simone Cametti, artista romano da anni attivo in Progettoborca con il progetto Casa Cametti.
Due opere realizzate nel 2019, una delle quali (Sguardo su Vaia) incentrata su Tempesta Vaia e cantieredivaia, l’altra realizzata a Corte a Natale 2019, sono state acquisite da due collezionisti romani.
Quattro.

Quindi bene, e avanti (andare non è stare): e, come sempre, in su.

Gianluca D’Incà Levis, dicembre 2020

Le foto sono delle operte di Zanatta e Coppola sono di Giacomo De Donà. La foto di Giacomo Segantin è di Diego De Marco.