26 dicembre 2011

con questo giuoco intendiamo dire che: dato che il tendere (infinito) della volontà non è in alcun modo soddisfacibile, essendo ogni evento troppo esiguo per racchiuderla, ogni evento essendo fenomeno, ed ecco infatti che ogni raggiungimento ogni aspirazione ogni CIMA svaniscono solo un attimo dopo la loro presunta conquista, e come non c’è alcun motivo, NON C’E’ ALCUN INIZIO, alla volontà (infatti schopenhauer non ha saputo concepire alcun big-bang), volontà che, come, pur senza desiderarlo, sa bene ogni osservatore lucido e sano di mente, porta inevitabilmente alla GUERRA (saper che c’è, che è inevitabile, non significa anelarvi), allo stesso
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apetor / l’anima piatta, è quella dannata


non siamo giovani eppur sì, nè rifiguratori barocchi. non siamo oppressi dal tormento, ma alcuni tormenti inflitti li rivoltiamo dagli oppressi ai rètori. non guardiamo mai in basso, teniamo un grande foro circolare al centro del capo senza farne un monile, ti sconde le spire nostre giuste pitonesche d’encefalo ragghianti e ci spinge in su, questa serpe nervosa.
non c’è l’inferno in terra, ma l’orrore di certo avvampa: sta nella cranie rognose dei puliti settici (clinici): son sempre quelli delle mezzemaniche.
l’anima bella dunque, non è mai opposta a questa, che non è quella dannata. l’urlo una saetta, nè terrore nè sorpresa, sguardo duro che fa presa, è una fresa, è una fresa.

per cui non vi è qui nemmeno: un satiro dormiente. conosciamo la grecità, sprezziamo la frollatura ellenistica. ben distanti dal fauno barberini, la nostra ubriachezza ti sarà d’incudine, profittatore lubrico o aria leggera che tu sia.
ah, sto corsivo c’è perchè, prima della cladonia, per l’immagine d’anteprima di sto post avevamo tilizzato l’anima dannata di bernini. che invece abbiamo poi tolto. ma il cannone resta.

eccoci ancora dunque o quasi (lanciolungo) con apetor: chi è costui? perchè lo invitiamo qui da noi? i soliti impertinenti inammansibili (pro-vocazioni deliberate? scelleratezze intrepide? i selvaggi insediamenti delle formiche nel shervello? gli scatenatori delle esasperate tensioni?*) – fa l’eunuco culturale travestito da censore abstemio. e lo vedremo, sì che la vedremo, razza di bruttimbusto: siamo buoni noi a natale: intendiamo razza di: borghesazzo qualunquishta insensibile giustiziatore ingiusto dei Guitti di Dio, giust’in sottosuolo: e quindi squallido disumano a cui diamo di frusta -la frusta della nostra moralità e dirittezza carnate- che non sa stimare l’animo delle persone: tu, sudiceria umana nana senz’ama, neppure lo meriti il nostro policromo vetriolo critico veleniridescenza, come sversar malgamelettriche di latti azzurri e creme fuse d’argento giù per lo scarico lutulento botro melmoso, anzi su da esso, che il pantano basso ce l’hai nella serra-calotta; come tentare d’abradere un peto leggero coi rigogliosi rami ritorti del ferro esploso che pinge il volto che piange, ô toi qui voles d’un bond de h’hysope-isotope à la cime. quindi certo sarebbe più che bastante a te gragno na cosa del genere, retorica come sei tu -tu che però a differenza di papà serling mai saprai portar la mente (?) ai confini di qualchecosaltro che n’sia: quello stesso peto fioco e prolungato (Eterno Ritorno del Culo), flatula perdita sibilostante, che ti è consustanziale (è il tuo fiato); che neanche dickens, ma qua siamo ora, giusto oggi citar così anche, e proprio a te anche ci rivolgiamo (abbiamo sembre una tromba immers’a'mezz’amerda: per bilanciare quell’altre recchie tese alte celesti che captano le radiazioni HMBR Human Microwave Background Radiation), a te tanto umile (questa parola è sempre fraintesa, soprattutto per le Cime Piatte di Dentro, dove si moltiplicano i fiochi succiamontagna pestellidipietra, e giù (mica su: e due) l’altre pompe tutte e batterie di corni e cornuti alpini a dirsi cheti che son spenti, tranne per l’armonic’anata) nell’intelletto e nello spirito, dove naturalmente ed invece umile sta per: gretto disseccato, avaro ripugnato corto nel pensato, lesso ed impanato, occhio deplorato (un punteruolo di fulci o bava), cuore scioperato (ignomigna la vergogna). insomma, nonostante la tua esagerata pochezza e i gravissimi demeriti e la colpa schifa somma suprema slercia, noi siamo generosi: tutto questo ti rechiamo in dono.

ma qui parliamo anche agli altri bravi nostri (non possessivo) che san cibarsi delle croste saporose che si staccano, o vengono picconate via, ablate dalle meningi laboriose, in quel loro trambusto a sferraglio di strada chiodata: e dal sorriso comprensivo. quelli insieme ai quali esistiamo. quelli che riconoscono apetor, perchè riconoscono l’uomo.

sappiamo bene dunque come apetor sarà visto da quei magri tisici falsari tortorat’in società che ci dan dei violenti (eppure, lucilio, vivere è fare il soldato),
come (o dove) lo (la) prenderenno i Mezzi Magù (altro cantico): costoro che sono i Presidenti ciechi dell’Impero -o imperio- dell’Indifferenza Cosmica Sottumana Ributtante, quel germe putrido ed acritico a tenaglia che genera e svomita l’inaccettabile inabilità culturale (col suo gravissimo carico di sprezzo ndifferenza nsensibilità nei confronti del: profondo buono) e tutto il resto dell’arsenale organizzato delle ottuse fertilità carcinose antiradicanti che costituiscono il piatto favorito del borghese crepito doloso istesso, quello che noi scudisciamo quotidianamente coicuoiuncinati, quello che in realtà anche mentre lo bonificano Cavaliere in Peto pei Vani Unti e Lordi Meriti di Cassa, riesce mai ad apprezzare (sa solo prezzare) il lavoro inteso quale frutto della capacità di scavo di una sensibilità accentuata (cioè un’estensione manamente funzionale dell’esserci e non il suo dominio da parte delle Babeliche Verminosità Autopompe degli Apparati Profittevoli nel Mogano Scranninculo; parliamo del lavoro culturale dunque, e della commovenza della cercanza; parliamo del rispetto dell’uomo e delle sue nobilità terrene e intellettuali e siderali e cosmogonadi e delle scene zurre e rosse -il cielo è puro nel sangue- che trafiggono la sua calmaeserena mente di pazzo illatre sedizioso: insomma: vivo. parliamo dell’amore per l’esserci – talvolta coincide con il crystal nella bara – ma questo è improprio qui, qui non siamo su mericanpsycho, ma solo quale esito del fascino discreto o del piacer -talvolta morboso e botrosessuale- di profitto e per le relazioni anali. ah: non siamo comunisti noi, ce ne sbattiamo di destra e sinistra e anche delle preferenze sessuali -chi te le ha chieste? – tutti fanatici o pigri, quelli, scemo: noi siamo antilamerdavana, e frontali).

si può dire che questo incipit abbia brillato d’ombra come nostro esergo autologo siccome spregiamo i motti almeno quanto i proverbi.

si dice dunque a proposito di apetor -eccoci forse- per chi sa avvertirla, della quasi commovente semplicitudine terrena -è una semplicità in beatitudine, caprone (terrena vuol dire radicata, non incapace d’innalzamento, la cura buona delle terre buone che balza scatta ma leggiadra, pei Nove e Diciassette Gradi dei Cieli, quindi sono Otto qua in questa configurazione generosa estensiva dinamica (red-shift) quelli Mobili, mentre il Trionfo è antitronfio: lasciamolo là sopra quell’Empireo ultratomistico) e della Poesia e dell’Amore per la Stessa Terra da parte di quest’artista intimista, le cui giocosità e pagliaccerie paion sistemi dissimulativi di un pudore gentile e

(o pieghe o tagli delle paratie smangiate nelle timide palizzate smarcie cresciute sature gorgoglianti -come piedi e gambe enfi cavi suggenti -come sangue sprizzo dal collo- dal suolo zuppo, simulacri contraccettivi a contenimento di uno slancio vitale calibrato (dignità misura riserbo) e riportato ridotto nella pace dei silenzi solitari per i lacerti e i campi arguti degli spazi tirati dal vento e per i biomi insomma, tra tundr’eforeste, fiord’iebrughiera, specchi de giazzo monte e versante e clivio: dove la felicità rattenuta non smoda in grugnito (l’incedere suo perfino e di certo educato e gentile e sobrio e comunque: nessuna caciara e l’andar sulle punte – nessuna sciatteria di calpesto: ma camminare piano sulle sofficità, ancora in amore, un agio attento, una spontaneità della comunione cercata liberata, un camminar la testa specchiata sott’ai palmi, senza retoriche neoANOthoreauiane: com’accade alle presenze consapevoli, a chi non è estemporaneo nella cosa, a chi non è uno stronzo in natura, gettato o grappato ai lichenin’cui s’infinge, etcetera)

ma come nel lago dei cigni in punta diciamo scarpetta, viene per squittii semitrilli paupule gongolate ranteghe e bruiti: anche se il gesto pressivo gli è quello dell’espirazione piccolo raccolto educato semischiocco contenuto che dice del farsi del bersi comunione (e due) squisito paesaggio come la celabrazione nell’amore (e quattro) vichingontemporaneo che poi anche gli altri versi e suoni castonati di ghiotte schiuse croccanze eseguono inchino paritetico in un istante d’estasi condivisa gli occhi socchusi come la bocca e l’anima, sorta di crepuscolo delle nordiche luci dentro come riportate nell’arca ventrale espansa (ma le gambe son buone i piedi precisi, un quieto compasso dell’anima: e non fatelo in betulla, designer del ciazzo, predoni acritici onanisti): e finalmente: na vasca dei ghiacci in radura nel tepore delizioso dalla vodkavikinga, l’abbraccio di una cinta rada di chiaro novellame betulaceo, e avanti.

per gli spiriti lievi appunto, nell’agio della terra natale (è natale), grati assaisiamogli: per la totale assenza delle incespich’incertezze come cornici e clichè e retoriche della rappresentazione (queste merde vengono con i venditori, infima categoria di estirpatori della qualità che mai trova spazio nel selciato lurido del mercato), rappresentazione dell’ambiente dell’uomo da parte dell’uomo (vasca o bosco o landa che sia, ed è: sempre sacche pulsanti che tengon l’uomo sono queste -l’uomo che le vede e vi si specchia, immerso nel vetro di natura -ma non è ubriaco); non l’uomo che siccome non sa specchiare l’altro uomo si rifugia nel nido pernicioso; infatti, anche se non intendiamo infierire qui: egli ama l’uomo e il mondo tutto mica solo il fiordo; nella bocca sua calda cava l’ovo interspazialeculturale, poi lo ricova amorevole a focena, leonessa gentile, la goffezza un attributo della cecità di chi guarda, come ridicola bruttezza, e traendone bimbo universale: e via il ciuccio (quindi questa è una rappresentazione pacata di tolleranza e speranza, orsù, sceMagù).
poi per come noi si è chiarisimili nell’andare, qua ad esempio
– e in realtà non troppo dissimili queste sacche sono da quell’altra sacca che ti porti dietro quando t’han staccato l’intestino dal buco del culo. ma di questo altrove): quindi, anche, delle sacche, etcetera.

dato che di romantichezza pura anche si tratta, m’antistucchevole (potere di coaugulo della cura autosomministrata; neanche l’ombra qua qua, di certe ciucce ztarnazze zvenevoli e delle languidità altre zoiche zecche zentimentalishtiche con cui si dan la paga i bominevoli esseri postumi – quei paraviventi del dopo, mai umettati al presente, patetici, descrittivi, malati di storicismo spermatico – oddio! gli z-orgoni, fancùlati), oltrechè dello spirito libero della ricerca in ambiente, la ricerca di questi soffici guanciali di natura (cladonia stellaris lecanorales, anche qua), che mondano dalle prosaiche gravità, che carezzano la mente traverso la pacifica canalizzazione del corpo cavo dritta fino alla mente-pitale fattasi quasantiera lozoista: e questo soffice qui non gli è supplice (subordinato posteriorizzato come nei panteismi-in-offerta-a-rimorchio, ma fratello -pariteteticità antipatetica: e non possiede un atomo di quel rozzo umile etimo della cedevole condiscendenza, perchè munge l’eco trinsecondiviso, rietcetera

la ricerca di quei soffici guanciali di natura ed altri, dei geli e dei fochi dei freddi e dei cofani, battuti rugginiti: e dell’archeologia industriale, sissignore pure, se non sei orbo sii diligente e profondisci, la confluenza delle consonanze, la coessenza della merda fare senza – cimiteri d’automobili tra gli steli battuti; stazioni bandonate e dighe irraggiate innatura e bui budelli di miniere scainate: vede le stesse cose che vediamo noi, apetor, cose che invece non vedono mai Magù e L’Avvocato, tutti Gola niente Lingua: le vede e le lecca e le mangia e le corre, ste cose, e qui anticipiamo qualcosa breve digressione sulla scaglia di crosta croccante:

come la crosta sempr’edibile: di colore, vernice, vegetale, chip: o scaglia scista di roccia o bonbon staccato ciucciato da stughe e stugorne – su cui passi la lingua rasoio e taglio che cola (il cielo è puro nel sangue che cola), poi la croccanza di patatina (george crum), sottile come il ghiaccio e il pattino a ghiaccio, un marcar di papilla le le superfici o segnarle di lama che sono precise: ma anche quell’altra scheggia lignea di stuga lamella, sono insomma tutte queste parti sottili laminate in sezione o famiglie, edibil’sì fatte -siffatte- comunate dal climax sensibile dal suono secco che scatta splode crepita in bocca, sotto ai denti, pressa gentile, nel momento della lenta chiusura mascella quel micron che serra la fetta fragrante la spezza frantuma concerto di spacki (banchisa in sapore) e l’occhio socchiude in piacere l’orecchio sta aperto silenzio (ma anche una musica, tu amuso) nel picco lo senti che gode a mangiare: natura & prodotto: per quanto riguardo il prodotto, metti pur dunque che A ci cavi un franco: la pubblicità, te lo spieghiamo noi e questo è un altro editto, fratello tardo, gli è consentita e se l’è guadagnato; che mangi, dato che mastica bene e non vive per quello ma-mangia la vita e in tal modo RISOLVE ANCHE TE quale disturbo alimentare patologia digestiva tenia talamica: che poi i DCA li possiamo curare anche noi, siamo fatti per questo, vien qua che ti verzo, mosca del pene.

ah, quore semplice, coeur simple, idiota di myskin, coglione di botnia; ma lui non impaglierà pappagallo, altro genere di félicitá questa; uno spirito lieve (tu hai detto: animo mite), spirito sottospirito dirà lo stupido, ecco la limpida grazia che sempre torna a matrice nel freddo, grotta subacquea d’amnio genetico innestato, una dolcezza palpabile senza sipario (non c’è teatro), perchè noi vediamo, cogliamo: un tenero e caldo sorriso che smuove il nostro candore, al sommo di quel corpo duro, il ventre una tanika fiordovikjnga e tre.

se dunque un uomo normale (cuore semplice) e in ciò nemmeno troppo fiero per null’altero: del suo carattere del nord: che non brandisce affatto come steigerhacke o altra sprizzante favill’alabarda, usa i pattini o il puukko ello gentile mentre il suo passo crocchia (ancora, anch’esso) piano, i gran tappeti di altri licheni sottocorteccia,
un uomo questo che lavora in una fabbrica di colori, dove si può immaginare che vengano prodotte (altre, ancòra) croste policrome croccanti come patatine o snack industriali (della tradizione d’industria, colle grafiche sintetiche gellnerate del gotland),
croste in sacchetto e altrettanto fragranti,
e che sin da piccolo s’acquatta per veder da vicino i rigagnoli, da essi dunque lappando le umidità nutritive,
se dunque un simile uomo amasse il paese proprio e quindi la natura e le cascate e le grotte di frantumi e ancora le tundre foreste brughiere e i laghi e i fuochi di stecchi che van nella notte e tutte le altre cose belle e mobili e accese e stagliate e in fiore -almeno quanto il prodotto in sacchetto.

e se questo uomo semplice risultasse particolarmente temprato (o convinto) o anche semplicemente affetto o baciato dalle malattie spacciafreddo (Congenital Insensitivity to Pain with Anhidrosis) o altre sindromi o pernacchie autotermoregolatrici, o anche al limite un opportunista spaccone culturale poperetico del regnoz candìnavo, fatto forte dalla sferza (è roba che ti fa robusto e disposto all’esercizio – del tuffo salmonato),

ivi ed intra acclimatato da generazioni ed esperto nelle tattiche di resistenza e trombetta e guaito filastrocco e buffoneria (ma questo pudoreggiare dicevamo è invece forse ed anche la vena, riservata fino alla melanconia -e magari nemmeno fin lì- di una personalità fitodrammatica che contrasta la sordida nostalgia del presente effimero – e se lo mangia sempre, il presente, calmo e subito (sùbito avverbio non participio: sùbito contra subìto e il suo contrario: la consapevolezza plantare corticale) e le lingua gli ride così guizzandogli l’anima: si baciano; oppure e anche: il camminare andare rombare stare per le croste sottili (creazioni concrezioni brum brum) delle acque fredde superfici di un abitatore intrinseco matore (non è un attore) dei luoghi interiori -quei prati di ci ricordano anche ques’altra dislocazione spaziale o respiro creata qua, cioè lissopra, perchè è un fatto indubbio il fatto che quest’uomo dorma all’addiaccio).

ah, siccome abbiamo usato più volte la parola semplice e l’espressione uomo semplice, giungiamo due considerazioni, dato che per i mollicci sempliciotteggianti sconsiderati (e sette), essa è come il peto (n’altro) di un quietante sbadigliante karma salvifico (pigri, creduloni, apostati, rottinculo): diciamo allora che questa egloga nordica stappata non crepa malamente come un giovine canrabbioso dietro al faggio, e però ad apetor aprono la pancia (ha il cancro: c’è il cancro). la vita non è affatto semplice, coroniano delle mie balle. c’è anche la bottiglia (ma ad abusare è il Presidente -in petore- del Museo delle Cecità che sono Pavidità dello spirito -minuscolo: di certo non potrà ESSO abusare di sensibiltà e intelligenza: e allora busa della sua sconcia ottusità integralista, per mettere in circolazione: costrutti maldestri e instabili, insomma: gli enti di merda. etceteta).

e la bottiglia a cosa serve, e questo ritmo che a ben guardare non pare né contrappunto né ritualità? usa la testa. serve a disinnescare, altrimenti il nostro bravo giovinotto sarebbe sbronzo no? l’hai mai visto sbronzo tu, asino? serve a tener decoro e misura (è un distanziale, ritmico, ponte, tamburo, plettro), ad articolare il ragionamento su quali flussi siano o sian mossi al modo naturale (fisiologie estetiche): e, benedetto uomo, anche a limitare il potere ignobile della banalità della natura arcobaleno, puttana per tutti, e della sua contemplazione da parte dei pignoratori di foglie (son gratis) patetici senza denti, praticata dai servi pronati aquattro; apetor è un esploratore ricercatore, merita rispetto. sa ringraziare ma non prega, e quando lo squartano non frigna, poi ha e fa altre cose che diciamo tra poco o n’altra volta, che oggi siamo veloci, sintetici, questo è un passaggio morbido e leggero: un giorno ti daremo la pesantezza, occhio che viene. solo a lui consentiamo di abbracciare e leccare l’albero: perchè non è un minchione treesturber.

senza volerne con ciò: fare un caso più grande di quel che è, che ci son cose di lui che c’interessano poco o meno o punto, e noi non teniamo eroi pantheon o valhallaz, qui stiamo mettendo in evidenza le virtù e le consonanze, e lo stiamo utilizzando anche come parametro-ariete, apetor (lo facciamo anche con noi stessi), per dir contro ai soliti stucchevoli benpensanti perbenismi efferati assassini del pensiero e a favore delle libertà e degli eretti intendimenti dell’essere e del corretto trasportarsi tra gli enti, enti di natura in testa, ad esempio ritoccandoli e carezzandoli e leccandoli e deliziandosene: insomma, senza mai farne una solfa.

ma via, ancora un fiotto. dovrebbe dunque egli  -per qualche motivo che ritenete voi nell’oscillazione dall’amaca vostra frusta in bozzolo- nel momento in cui decidesse di andarsene in giro da solo a raccogliere, facendo dei propri moti liberi uno spettacolo e documentario, buffone filologo della cultura d’ambiente come pare (a te), a raccogliere gli scampoli e tutta una serie di aspetti minuti della vita e della respirazione della crosta e del suo sottile e variegato abito naturale – dovrebbe egli forse per qualche motivo che piace a voi che state sul dondolo culturale, o ad un consumatore di chinotti: risultare astemio?

ma a noi appunto non interessa quesot aspetto: se davvero e quanto e come tor beva (sul perché possiamo ragionare, oppure dai: fallo con la tua muta o mutua), eccetto per quella parte che di questo bere fa appunto una dichiarazione letteraria di presenza radicale esistentiva (ah, le sofferenza d’ogni uomo così perfidamente macchè e però: malamente  gettato pel mondo, anche laddove esso mondo fornisca soffici guanciali candidi di lanugini in fiore, contemplabili in estatica beat’ebetudine), oltreché un espediente e ritmo narrativo, e una dichiarazione di estraneità al coro degli amanti frignanti grufolanti pisciaddosso della natura corrotta lapidata servita da servi a servi e spompinata (di succiaalberi ne abbiamo fin troppi noi oggi come ieri quassù, e sembrano sempre, dato che lo sono, turisti avaiani – ma in questo parer di essi ciò che sono non vi è coerenza alcuna, e solo passività e fraintendimento: ecco la grazia pudica ed igienica del ludibrio dispiegato).

insomma, è evidente, apetor è un cercatore, giger, detector, pastore, wanderer, bimbo, spirito della crosta, altrimenti e così via.
va nel bosco e per le terre, solo, e fa alcune cose che ci interessano.
è un cattivo esempio, dato che la soavità del suo giudizio sulla natura amata si sublima nel la simbionza combica colla bottiglia, che è anche la rappresentazione di un vascello vikingo, mare in bottiglia, altre cose al galleggio e così via?
stai attento all’abito, calza bianca su mocassino lucido. l’abito nella società?
e l’uomo dove sta?
apetor è un bello d’antifrasi? no. è bello oggettivo.
 stai ancora e dunque attento all’abito, peto, che io lo indosso meglio di te, ho più fisico, proporzione, stile, portamento, incandescenza, fissioni: tu sei fatto di merda e poca potenza. la regal di me marsina vanta due code di fuoco son bocche di canna tamburo battente, vieni sparato anche mentre stai ascoso nel cummerbund.

*no. i lutammari.

corte di cadore, 27 dicembre 2020