mario tomè/skyhook
mario tomè
skyhook
Cercare è salire. Lo spazio pone il rapporto. Pulsione totalizzante, ricerca esistenziale, accomunano la pratica dell’artista e quella del rocciatore.
Per entrambi, la tensione esplorativa e l’azione creatrice conducono ad operare secondo un criterio di necessità all’interno di spazi entro cui viene esperito ed indagato il puro senso. Senso della cosa; della relazione tra le cose, degli esseri con l’essere e con l’esserci. Spazi perfettamente arbitrari, de-liberati, ed in ciò essenziali all’uomo vivo, quanto inutili ed incomprensibili all’uomo astenico, incapace di thauma.
Lo skyhook è un particolare climbing tool, utilizzato nella progressione su roccia in situazioni particolarmente impegnative, d’equilibrio precario. Lo scalatore lo impiega in parete, affidandosi a questa protezione minima ed aleatoria pur di proseguire nell’ascensione. Di continuare ad avanzare.
In skyhook, Mario Tomè riflette sui significati e sui meccanismi che determinano l’irresistibile pulsione a salire, e sulle fortissime analogie tra l’aspirazione dell’artista e quella dello scalatore.
Corrispondenze verticali
Skyhook. Gancio-per-il-cielo.
L’amo, attrezzo di caccia. Si getta, lancia, punta l’amo, quando si vuole trovare, prendere, catturare. Una preda, un significato. L’amo diviene così il mezzo, lo strumento, il breve attrezzo metallico resistente attraverso il quale – e nel quale- si va a custodire il senso urgente di un rapporto cacciato. Dove c’è urgenza, il senso del rapporto, e dello spazio, si espandono. Lo spazio diviene assoluto, siderale.
Lo skyhook è un gancio formidabile. La distanza impressionante tra la sua dimensione, la ridottissima superficie di contatto con la roccia e la capacità di tenuta che riesce a garantire, genera un lampo zen, è koan. Un punto, precisamente quello, qui e ora, in cui il metallo preme sulla pietra: quella pressione provocata dal peso di un corpo, sorta dal progetto immotivato di un uomo libero cercatore -dunque ladro- riassorbe parte dell’ipotalamo nel cervello primitivo, genera un equilibrio, rende creativo l’istante. E’ anche il piccolo che custodisce, o conduce, al grande, come l’uomo solo nel cuore della parete, come l’artista nella propria Stahlwille, antiavaro, antisociale quanto lo è un’opera d’arte per il voleur, concentrato, determinato nell’azione, privo di scopo, estraneo al profitto, Mushotoku, teso d’ideale, vuoto, reale.
Ecco che il cercatore scalatore ladro, individualità interrogativa e poietica, conquerant de l’inutile, non da oggi, fa mondi, senza peraltro inventarli, unificando l’azione e la riflessione (anche dove si gioca con l’apparenza di una loro separazione, come avviene, attraverso la frattura tra due livelli percettivi, nel mantra ipnotico di Ti parlo del mio lavoro; anche quando utilizza i propri attrezzi, da montagna, da scasso).
L’artista e il rocciatore: due declinazioni, due isotopi del salitore, ovvero dell’uomo che decide di mettersi all’opera, agendo al contempo la dimensione del fare e quella del conoscere, agganciandole. Tensione corporea e tensione mentale, entrambe necessarie all’esperienza dell’ascensione.
Progressione
Tipi apparentemente differenti di salitori manifestano comportamenti analoghi – equivalenti-. Salire è pulsione, tensione, ricerca, ispezione, condotte all’interno di un teatro d’azione entro cui si assiste all’alternanza di coesistenze ed opposizioni, confluenze e respingimenti, tra le serie dei fattori fisici, morali, spirituali, emotivi, psicologici, razionali.
…l’obiettivo, la salita, l’orientamenteo, la lotta – Stahlwille, ambizione, ricerca – nello spazio, nell’aria, nella luce- scoperta, difficoltà, sofferenza, trepidazione, silenzio, incertezza, tensione; concentrato: una scheggia di thoreau: la mia testa è mani e piedi; la fatica e la resistenza, il pericolo e la paura, il superamento e l’esaltazione; e gioia, urlo, e poi il vuoto; l’azione della ghiandola, gli incroci dei movimenti fisiologici con i volteggi psichici ed emozionali, i pensieri imbrodati in un liquido patchwork multisensoriale, lo scotimento pancreatico adrenalinico, mescolato al distillato di pensiero, ed al succo dello spirito, ed alla ponderazione, ed alla calma – il tempo continuo, sulla linea verticale, e poi rotto spaccato, ogni azione corporea o mentale è ora un monosillabo, c’è ma è economizzata, ve n’è la traccia, l’ombra, la si sa senza aver il tempo di pensarla per intero, spenderla, agirla, dirla, che c’è da manovrare in fretta, da superare, correr via, fuggire, da salire ancora più in alto, prima del tempo; e accade che così trascinati, a tratti, non la si agisca nemmeno più, quell’azione, ed è invece lei ad agirti, l’azione si estranea e s’impone, gli atti si susseguono quasi autonomi, passaggi tecnici, procedure, l’uomo è fuori, sospeso fuori da sé, ad un metro dalla cosa, e si vede da sopra, ma poi riesce a rientrare, è vivo, ha superato il problema, e nuovamente coincide, si riprende, si riappacifica, e ricomincia a salire intero, nel tempo intero, integrato, sintonico, fino alla successiva frattura, ed è nel salire, non prima, non dopo, che egli vive interamente, ma in quel momento lì, che lo arde, e consuma, e spaventa, e dilata…
La progressione verticale è una linea arbitraria e libera, un itinerario creativo. La salita, nella quale l’uomo – scalatore o artista- mette completamente in gioco sé stesso, in uno spazio definitivo nel quale per esprimersi, cioè per cercare ciò che ancora non sa, egli è talvolta disposto a rischiare tutto quanto ha, od è, è esperienza radicale.
Stahlwille, titolo di una delle opere in mostra, è un concetto attraverso il quale risulta facile mostrare la rete delle corrispondenze. La forza di volontà, che non corrisponde ad una volontà di potenza, è il primo motore della determinazione dell’uomo-che-cerca. La volontà di potenza è la forza corporea del pensiero, cioè, in definitiva, il surrene, che si accompagna, o determina, drogandolo, l’eccitazione dello spirito. Ma l’attività del salire è qualchecosa di più del prodotto di una pura secrezione: è azione mediata di corpo e mente: è un percorso fisico ed intellettuale estremo: è fare e conoscere allo stesso tempo.
La progressione, ovvero l’elaborazione e la realizzazione di un percorso di salita, è importante di per sé, e non come strumento per giungere ad un altro luogo, ad una meta. La meta è insignificante. Il percorso è. Il tendere, è più importante del raggiungere. E’ il percorso stesso a contare, assai più della vetta.
E’ evidente in tal senso la superiorità del come sul che cosa: il come è l’abilità nell’esercizio della propria determinazione, corrisponde a ciò che abitualmente viene definito tecnica, sebbene spesso si tratti di una qualità matriciale, non facilmente acquisibile. E’ la capacità di sviluppare correttamente (istintivamente) una procedura a rendere possibile l’elevazione.
Qualora, nella progressione, si sia in grado di applicare lo stile corretto, cioè a dire la corrispondenza tra estetica del gesto e sua funzionalità, lo stile giunge a corrispondere ad una tecnica funzionale d’espansione dell’esperienza totalizzante della progressione stessa. Lo stile, perciò, diventa misura della creatività. La progressione è poiesi, invenzione di un itinerario, attraverso l’intreccio dinamico di corpo, mente, determinazione, tecniche.
Nell’alpinismo, nell’arrampicata sportiva, nel bouldering: durante la salita, sulle difficoltà maggiori, ci si incontra con ciò che c’è e che sembrava non esserci. Certi passaggi, ad un primo sguardo impossibili, vengono risolti con la Stahlwille, la perseveranza, l’astuzia. E’ la ricerca dunque, lo studio insistito, assieme alle risorse creative di interpretazione, testardaggine, scaltrezza, a materializzare la soluzione del problema. Quel problema, perfettamente inutile, e proprio grazie a ciò puro e necessario (gratuità dell’atto), che il salitore, rocciatore o artista, pone a sé stesso, è la sua palestra del senso, ciò che lo costruisce, lo determina, lo espande.
L’uomo capace di attivarsi con tutta la forza del proprio essere, che sappia intuire, e formalizzare, è uomo chiaro. Va per la sua strada, la esplora, si esplora. Intraprende un cammino creativo, e mentre và per le crode, e mentre realizza le proprie opere d’artista. Cerca una via, con dedizione e caparbietà, e perché non può farne a meno. Egli è spesso inattuale, ed anche in ciò contemporaneo. Sa produrre azioni, oggetti, riflessioni, contemporanei. Cioè a dire classici. Indaga i temi fondativi, che sono eterni, ed in ciò, simultaneamente, contemporanei e classici. Dickens è contemporaneo. L’arte contemporanea non è sempre contemporanea. Tomè, che ripulisce l’oggetto e l’idea dalle odiose superfetazioni stilistiche attuali, aggredendo il cuore roccioso della cosa con determinazione e tenerezza, è contemporaneo, e poeta, e realista.
gianluca d’incà lewis, luglio 2009
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