Sara Podetti/Some things can only happen at the borders


Sara Podetti

Some things can only happen at the borders, installazione multimediale e durational performance, 2019.

Fotografie analogiche (40 x 29 cm):
Lavrion, Grecia, maggio 2018
Lavrion, Grecia, marzo 2018
Chios, Grecia, novembre 2015
Pieve di Cadore, Italia, maggio 2019
Oulx, Italia, aprile 2019
Montgenevre, Francia, aprile 2019
Claviere, Italia, giugno 2019
Atene, Grecia, aprile 2018

Tracce Audio:
Ibrahim e Ahmed, ragazzi egiziani, raccontano come hanno superato la frontiera italo-francese e le loro frontiere del passato, Briançon, maggio 2019 (8’22’’).
Zahid, pakistano, e Mustapha, gambiano, abitanti a Tai di Cadore, raccontano che cosa ha significato per loro la frontiera e com’è vivere e lavorare oggi in Italia, nel Cadore, luglio 2019 (13’35’’).

Da un lato il confine, in quanto limite, limes, nel suo significato di barriera, dichiarato con segni e simboli. Dall’altra una definizione molto più impalpabile: quella di frontiera. Ciò che presuppone questo termine è l’esistenza di una barriera invisibile, ma non per questo meno percepibile, regolata attraverso una membrana semi-permeabile, le cui infinite maglie si basano sulla complessa somma e sovrapposizione delle qualità del soggetto. Se il confine esiste a prescindere che si interagisca con esso o meno, la frontiera nasce dalla relazione tra il singolo e la permeabilità del luogo. Presuppone una riflessione circa le condizioni e i requisiti che permettono o meno il suo superamento. Per questo le frontiere possiedono un carattere di soggettività, agisce sui corpi, definendo delle differenze. “La discriminazione è la più grande arma sociale”, i passaporti e perfino i certificati di nascita sono criteri di distinzione sociale. La frontiera non è né immobile né uguale per tutti, ce la trasciniamo dietro incisa sulla pelle, sul conto in banca, nella nostra cultura, nei sogni. Ciò che ogni frontiera sottende è la “condizione di pensabilità”, ovvero il “come pensare” il passaggio della linea. Quando le condizioni di pensabilità sono estremamente limitate, ciò che ne permette il superamento è il desiderio, l’istinto di sopravvivenza. Le fotografie in mostra sono state scattate durante la ricerca etnografica in vari luoghi di frontiera in Grecia, Italia e Francia dal 2015 ad oggi. Sono appunti visivi. “Ecco cosa bisognerebbe tenere a mente: un’immagine, uno sguardo, una visione.”

Durational performance (realizzata solo il giorno dell’opening)
Il fossato del Forte di Morte Ricco rappresenta una divisione netta, un limite, tra ciò che è dentro e ciò che è fuori. La fortezza, luogo che protegge, è circondata e resa sicura proprio dalla presenza del fossato, che sanciva chi poteva e chi non poteva passare. L’artista vuole marcare la presenza di questo luogo, attraendo l’attenzione sul confine fisico e su ciò che nasce attorno ad esso. Camminando nel fossato, riporta a quella che è una delle azioni della frontiera passata e presente, il passaggio dei migranti sulle alpi occidentali. La fascetta che porta al braccio è uno dei segnavia utilizzati nei sentieri per indicare il passaggio più sicuro ai migranti, fra Claviere e Briançon. Inoltre, attraverso l’azione di disegno di una linea ai piedi delle persone, l’artista vuole riportare al gesto di “disegno” dei confini. Linea visibile ed invisibile, quel gesto continua a portare effetti sui corpi delle persone. Lo spettatore si trova nella condizione di “pensare” il confine e il suo passaggio.

opera in:
to be here and there (cantieredivaia)
a cura di gianluca d’incà levis e evelyn leveghi
forte di monte ricco

12 luglio – 22 settembre 2019