dc e carrozzeria margot insieme ad artissima

in occasione di artissima lido, dolomiti contemporanee e la collezione di carrozzeria margot daranno notizia dell’avvio di una collaborazione che porterà alla prima produzione co-mmissionata dell’opera Il mio mezzo spazio di jonathan vivacqua già parte della collezione. la vetrina DC/CM, e farà parte della produzione A SHOP IS A SHOP IS A SHOP IS A SHOP di hanna hildebrand, e sarà allestita all’interno della casa della tuta, galleria umberto I, torino. la costruzione (del pensiero e della sensazione) dello spazio intero non è certo un’afflato cosmico, nè nostalgia romantica d’anima mundi, nè credenza d’integralismo organico, o reminiscenza sublimante (non è come caspar wolf che guardiamo qui alla roccia), o la mitizzazione o venerazione di certi cosiddetti maghi (o glabri o barbuti anacronistici stregoni montani, che si son cotti ormai tutti, marinati, è evidente, nel brodo grasso della storicizzazione autologa, l’ennesimo crepuscolo dei mezzi idoli -idoli stinti, profeti esiziali) a far dire qui che nello spazio (fisico e mentale) del salire, che non è libero né lieto, soprattutto all’inizio, ma necessario, per chi sa farlo, il mezzo spazio possa/debba aprire confluire sfociare nello spazio aperto, che non coincide affatto con un infinito universo beatamente libero e placidamente indifferenziato (un prato di cielo), in estasi o penia (nella gioia o nel vuoto), ma nemmeno in un elemento suddivisibile o partizionabile; lo spazio è aperto in quanto mobileplastico, come l’azione, libera e vincolata, dell’uomo che sale, verso l’alto, per la roccia, nell’aria; tracciando linee individuando percorsi modellando lo spazio ed imprimendo la propria forma nella roccia, sé stesso a plasmarsi nella roccia, improntandosi, e prendendo simultaneamente la roccia in sé (il doppio stampo), nelle scariche come negli attimi immobili; dunque salire come azione deliberata e diretta, scontro/incontro, durezza e naturalità, la decisione e la sensazione (intelletto che sente, a spazzar via l’idea triviale del festino endocrino) di un itinerario nuovo, la via che è una strada pulita, sgombra, limpida, nuda, difficile, da cercare fluendovi, che trapassa, s’instilla, cattura, separa da tutto il resto -la presa delle prese- lima via l’inessenziale, lima via, se la li lascia entrare, ogni altra modalità dell’esistere, dell’essere, ogni frattura, ogni frammento; un’altra realtà colta nel flusso del suo mutamento (le pensée et le mouvant); e una struttura dunque, da pensare, progettare, fare, che sta già in nuce nella guglia greca bianca di marmo, candido modello, con un crinale di cresta e il doppio liscio apicco angolare (due nord) e, infissa, la prima presa-scultura geometrica (la presa non è un’istantanea, non la si vede quando le si giunge davanti; vi si passa -d’intuito- per accuratezze cinestesiche, senza tichismi), primo buco, primo segno per un moto, l’inizio della progressione verticale (axiologica) della radice-corallo, ridisegna lo spazio il nuovo organismo e lo popola quindi di brulichio vitale; e l’ambiente, in sé, non è responsabile di alcuna induzione; si progetta (proietta), grazie ad un sacrosanto artificio, un rapporto nuovo, di senso, un’addizione significante, non l’integrazione automatica (naturale) ad un contesto dato; e infatti a sass muss non c’era un bel niente, di dato, da cui indurre alcunchè; solo la determinazione di un nuovo fare eversivo; ed ecco allora un altro viaggio dell’aguglia migrante, per iniziare la prepararazione che sarà poi di questo corallo-radice, che è una struttura insieme organica e artificiale, che sale al cielo per i suoi bracci larghi di croda mgca(co3)2 e acciai, sale al cielo come un’altra scogliera decisamente corrugata, che vien fuori e su dal terreno, ed è scultura, ma la si popola ed agisce, e ridisegna lo spazio, ed è un connettivo, porta la linfa e riferisce e parla, una colonia poetica ramificata, di e da quei massicci lì attorno parla, delle cime a cui si giunge traverso questo processo del salire che esclude i pigri, pesanti/leggeri, per queste vie stesse, qui concentrate ed accorpate, eccole, in questo gran ragno sospeso, sospeso, che non è totem nè salmo nè feudo, ma scala, e ponte. le vie. gianluca d’incà levis