6 dicembre 2015

dolomiti contemporanee ha partecipato a Tasting the Landscape, 53esimo congresso mondiale ifla (International Federation of Landscape Architects), che si è svolto al al centro congressi lingotto di torino,  dal 20 al 22 aprile 2016. TTL intende promuovere una riflessione sul ruolo fondante dell’approccio creativo al paesaggio, che derivi da un rapporto concreto e percettivo con il luogo e che porti ad un’indagine approfondita e alla rielaborazione di quelle immagini, pratiche e segni che possono influenzare l’andamento della trasformazione di regioni e paesaggi. Dolomiti Contemporanee partecipa nel tema Inspiring Landscape, con un
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22 ottobre 2015

paesaggi contemporanei: geografie dei paesaggi economici giovedì 13 agosto 2015 forni di sopra (ud) sintesi dell’intervento del professor pier luigi sacco, ospite relatore della sessione pomeridiana di paesaggi contemporanei, dal titolo cultura, sviluppo e territorio: dall’eventificio alla comunità di
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7 ottobre 2015

Contest  Il 1BBDC (First Borca Boulder Dolomiti Contest) è un contest di bouldering in ambiente, che Dolomiti Contemporanee prevede di realizzare nel 2016 all’interno dell’ex Villaggio Eni di Borca di Cadore, “cantiere di arrampicata culturale” inaugurato a luglio 2014 con Progettoborca. Si tratta di un progetto culturale, che si sviluppa nel PBLab. L’Associazione Party BLock (Belluno) curerà l’evento sportivo. Dolomiti Contemporanee e Progettoborca Nel 2014, l’attuale proprietà del sito (Gruppo Minoter-Cualbu) ha affidato a Dolomiti Contemporanee l’incarico di avviare un programma di valorizzazione culturale e ripensamento
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#pblab0 – Cane a sei zampe, rebranding Quasi ogni oggetto, all’interno dell’ex Villaggio Eni, è brandizzato: il celebre cane a sei zampe, logo storico di Eni, campeggia su ogni piatto, tazza, coltello. E sulle coperte in lana, che allora furono realizzate da Lanerossi, e che ancora utilizziamo nella Residenza di Dolomiti Contemporanee a Borca. Oggi, due giovani artisti e designers di moda, Anna Poletti e Giorgio Tollot, hanno preso queste coperte originali, e le hanno trasformate in cappotti vintage. Rebranding, rigenerazione, e coltivazione rinnovativa del patrimonio storico, attraverso le idee e le arti. E’ questo uno dei primi progetti
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12 aprile 2015

Keeping tensions up: a reflexive analysis of the (strategy)-making-of Dolomiti Contemporanee, short-paper coautorato da Maria Lusiani (Maclab, Cà Foscari) e Gianluca D’Incà Levis, che è stato accettato al call for papers EGOS 2015
 (Sub-theme 30: Fostering Change for Responsibility: Forms of Reflexivity in Engaged
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18 marzo 2015

qui di seguito, un’intervista di luciana apicella a gianluca d’incà levis, nella quale il curatore di dolomiti contemporanee (DC) si sofferma su diversi aspetti fondamentali della pratica culturale del progetto, e sul significato dei processi artistici e rigenerativi intentati. a questo link, una riduzione del testo integrale dell’intervista, pubblicata su il fatto quotidiano a marzo 2015. Dolomiti Contemporanee: l’arte come impresa funzionale, che riapre i siti industriali dismessi, e ripensa la montagna e il territorio come un perenne cantiere di stimoli. LA: Come e quando nasce l’idea di Dolomiti Contemporanee? GDIL: Dolomiti
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31 ottobre 2014

Qui l’audio integrale della conversazione tra gianluca d’incà levis e marc augè dal titolo L’uomo è il territorio, inserita in Paesaggi Contemporanei, Forni di Sopra, 17 agosto 2014. Qui, scaricabile, la trascrizione della conversazione.L’evento è stato promosso dalla Provincia di Udine. foto: L.
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Santos Dìas – Giuseppe Vigolo/Antonella Zerbinati: text

Giuseppe Vigolo e Antonella Zerbinati partecipano con Santos Dìas alla mostra Index Roma (26 febbraio al 17 aprile 2016), presso la Calcografia Nazionale della Real Academia de Bellas Artes de San Fernando a Madrid. 
La mostra raccoglie i lavori realizzati dai borsisti della Real Academia de España en Roma nel 2014-2015.
in catalogo un testo di gianluca d’incà levis, qui di seguito riportato.

ita (scroll for esp)

Santos Dìas – Giuseppe Vigolo/ Antonella Zerbinati

la traiettoria circolare del proiettile
di gianluca d’incà levis

ma che cos’è l’arte, se non questo proiettile sottile del senso, e realmente incisivo a mettere, opposto in ciò alla cartuccia istantanea che solo toglie.

e, pur nella relatività sua di scala (definitivo ma plastico, e così offensivo delle inerzie, ecco l’intento del proiettile nostro: fare, rifare: che nulla è già fatto), veloce o lento, mina riflessa del cervello, oasi critica e propulsiva di pensiero e sensazione, rompe i blocchi, muove lo spazio.
quindi l’artista è un combattente, non un pacificatore.
risuonano potenti, i fragori dell’arte, dacchè l’uomo inziò ad erigere i primi edifici della propria coscienza, spirituale e razionale, slanciandola per le terre e per i cieli.
le esplosioni dell’arte sono violente, talvolta, estreme. 
altrove distendono paesaggi quieti sopra ai brani  della realtà, ai suoi sensi ed ancestri, alle sue macerie e visceri, agli amniocoriali.
le forme nuove dei pensieri eterni coincidono col rifiuto delle sentenze, cieche, e quindi col rinnovamento, indispensabile.
così, ogni rinnovamento è cataclisma: inondazione della presenza, della cura, del senso.
paesaggi talvolta quieti, abbiamo detto. quieti in apparenza, e invece mobili sempre.
perchè un’altra cosa ch’è l’arte, è questo movimento, fermo.
il movimento di ciò che è fermo. 
l’indispensabile fermezza nella coltivazione dello spazio, eccola.
il movimento della montagna, ad esempio. che è solida quasieterna, nella prospettiva presente,  minuscola, propria dell’uomo contemplativo, passivo, infimo.
mentre non è che una polvere a venire, la montagna, da un’acqua che fu. 
come ci dicono le scienze prodigiose. che non sanno però saltare i fossi, e quella meraviglia parziale fa spesso allora solo la gabbia.
ma, ancora, dove la meraviglia è integrale, e non un suo tenue barlume, ecco le canzoni d’assalto, e la mina buona, ed a saltare è precisamente la gabbia.

esplosione dunque, eppur ferma, anche se non vuole -e non lo vuole- definire e chiudere, ma aprire e domandare.
l’arte non può, né deve, generare le paci atrofiche, i rasserenamenti statici, che sono probabilmente l’illusione dell’uomo, di certo di quest’uomo qui, oggi.
è il giorno, contra alla notte di céline, ed è il viaggio nel giorno del mondo, un viaggio che è del tutto immaginario: da qui la sua forza, che va dalla vita alla morte. uomini, bestie, città e cose: è tutto inventato (l.f.c., voyage au bout de la nuit). 
di più: è necessario -avendone la forza- tutto sempre inventare -altrimenti ogni cosa sarebbe data per sempre-  ma ciò non è possibile, perfino lo sa la storia.

e dunque:
se l’arte è una ricerca prima del senso, comprendendolo, già lo tiene in sé, liquido, come abbiamo detto, nel potenziale cataclismatico della sua riscossa.
e il senso non è mai in quiete, ma lo scontro e la frizione delle parti, opposte, alla caccia di scaturigine.
nulla esiste di semplice, tranne che per i semplicetti: ogni cosa che ci pare semplice è l’esito di una battaglia campale, delle complessità gravi: semplificare la vita costa la vita, ecco ancora l’arte, ecco flaubert.
le più grandi semplicità, sono le maschere tradotte delle abnormi, incomprensibili, complessità d’ogni cosa.
se dunque, per non fermarsi, gli opposti devono esser fatti risuonare, raccolti nel vaso e scossi, mescolate le polveri ed accese, ecco che i santi possono e DEBBONO, precisamente, star sui proiettili, e dentro ad essi addirittura, sempre , gettando-in-avanti il proprio senso.
non c’è nulla, in quest’affermazione, di guerresco, nel senso spiccio dell’accezione brutale: è il senso qui a dar battaglia ai vuoti. 
non amiam la guerra!, né merope.
quel sangue che stilla è l’appetito dell’uomo, la sua coazione carnale, non c’interessa ora: noi parliamo qui della fame e del ribollire del concetto, nella forma: della realtà del pensiero.

e dunque: una cassa, pulita e semplice, d’un chiaro legno, è l’altare scatolare che porta il calendario armato dei santi, le rappresentazioni dei 366 numi dell’anima, graffiati lucidi, nel risalto iconico, in urna col berceau.
i santi son la vita, la loro carica positivo vien trasposto sul vettore d’esplosione, uso a togliere, distruggere, smembrare.
la guerra buona che apre dunque, effigiata sul bossolo lisciotornito (che usa chiudere in frantumi): la coincidenza delle attitudini inverse, che genera il contrasto critico, mordace (alla maniera nera, a mordere la lastra, esaltando le barbe di luce).

la teoria dei proiettili qui, che non van più alla bandoliera, ad armar le mitraglie, e invece stanno, uno accanto all’altro, dritti come fusi testimoniali, a raccontare la storia di una cultura, la storia degli uomini, che si compie tra il dare e il togliere, il creare e il distruggere, l’amar dio e il resto, e l’uccidere, per dio.

e l’opulenza del supporto. Il netto del nero sull’oro. l’oro dei santi di dio e la tradizione antica d’icona, potenza del contenuto, lo scatenamento dialettico degli opposti, quiete le forme venerande, applicate alle superfici levigate preziose delle pale convesse da guerra, sicure. 
oro acceso che divampa, ricchezza prodigiosa dei missili schierati, il potenziale balistico dell’ordine a schiera, potenziale transumano e umano, che è l’arte, che accende e infoca e arma, la mente che cerca, e sa gestir la tecnica dei maestri antichi, con le fratture sinaptiche degli uomini nuovi, che vengono ora e ancora nella storia, a scovarne le radici, dando a loro le forme perfette del missile, che è il pensiero appuntito che vuole andar diritto e pieno e forte, che penetra il muro gommoso della ieraticità del concetto atrofico, esplodendo sempre le luci nel cielo. ed ogni cielo è in un grande buio compreso. ogni cielo nella scatola scura. ed è chiaro come questi santi-proiettili abbian traiettorie, aeree, ampie, aperte, curve; multiple, e circolari, tornano: non son fatti per esser scagliati contro un bersaglio uno. tornare: è l’esserci, persistente, che riflette.

borca di cadore, 4 gennaio 2016

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esp

Santos Dìas – Giuseppe Vigolo/ Antonella Zerbinati

sacred bullets, war of being

pero qué es el arte, si no este sutil proyectil del sentido, realmente incisivo en el meter, opuesto en esto al cartucho instantáneo que solo quita.
y, aunque en su relatividad maleable de escala (definitiva pero dúctil, y en ello ofensivo respecto de las inercias, he aquí el intento crítico de nuestro proyectil: para hacer, rehacer: ya que nada está dado), rápido o lento, el alcance es el mismo, y diferente: mina refleja del cerebro, oasis propulsivo de pensamiento y sensación, rompe los bloques, mueve el espacio.

entonces el artista es un combatiente, no un pacificador.
resuenan potentes, los fragores del arte, desde que el hombre inició a eregir los primeros edificios –complejos- de la propia conciencia, espiritual y racional, lanzándola por las tierras y por los cielos. 
las explosiones del arte son violentas, a veces, extremas.
en otros lugares desplegan paisajes quietos encima de jirones de la realidad, de sus sentidos y ancestros, de sus escombros y vísceras, de los amniocorales.

las formas nuevas de los pensamientos –eternos o en los ciclos de arquetipo- coinciden con el rechazo de las sentencias, ciegas, y, por consiguiente, con la renovación, indispensable.

así, cada renovación es cataclismo: inundación de la presencia, del cuidado, del sentido.
paisajes a veces quietos, hemos dicho, quietos en apariencia, y sin embargo siempre móviles.
porque otra cosa que es el arte, es este movimiento, quieto. 
el movimiento de aquello que está parado.
la indispensable firmeza en el cultivo del espacio, aquí está. 
el movimiento de la montaña, por ejemplo. que es sólida casi eterna,  en la perspectiva actual, minúscula, propia del hombre contemplativo, pasivo – la parálisis expresiva no es firmeza, la solidez estable no es inmóvil.

mientras no es más que un polvo que vendrá,  la montaña, de un agua que fue.
como nos dicen las ciencias prodigiosas. que no saben, sin embargo, saltar los fosos, y esa maravilla parcial construye entonces, a menudo, solo la jaula.
pero, de nuevo, donde la maravilla es expandida, integral, y no un pálido reflejo de la suya, he aquí las canciones de asalto, y la mina que dona, y es, precisamente, la jaula que salta.
entonces explosión, no obstante quieta, aunque si no quiere -y nunca lo quiere- definir y cerrar, sino abrir y preguntar.
el arte no puede, ni debe, generar las paces atróficas, los sosiegos estáticos, las consolaciones estéticas, que hacen la ilusión del hombre, ciertamente de este hombre, hoy, epidérmico, papilar.
es el día, contra la noche de destouches, y es el viaje en el día del mundo, un viaje que es del todo imaginario: de ahí su fuerza, que va de la vida a la muerte. hombres, animales, ciudades y cosas:   todo está inventado (I.f.c., voyage, bout, nuit).
aún más: es necesario –sabiéndolo- inventar todo siempre -de otro modo todo se daría siempre por sentado- pero eso no es posible, hasta lo sabe la historia.   

y entonces:
si el arte es una búsqueda primaria del sentido, comprendiéndolo, ya lo tiene en sí mismo, líquido, como hemos dicho, en el potencial cataclísmico de su reconquista.
y el sentido no está nunca en calma, pero el desacuerdo y el roce de las partes, opuestas, abriendo brechas, a la caza de derrames.
no existe nada simple, excepto para los simples: cada cosa que nos parece simple es el éxito de una batalla campal, de las graves complejidades: simplificar la vida cuesta la vida, y aquí está el arte, aquí está flaubert.
las más grandes simplicidades, son las máscaras traducidas de las demasiado grandes e incomprensibles complejidades de cada cosa, perdidas en los desiertos clásticos.
si entonces, para no pararse, los opuestos tienen que ser resonados, recogidos en el jarrón y removidos, mezclados los polvos y encendidos, aqui tenemos que los santos pueden y DEBEN, precisamente, estar sobre las balas, y áun más, dentro de ellas, siempre, lanzando-adelante el propio significado.
no hay nada, en esta afirmación, de belicoso, en el sentido propio de la brutal acepción: es el sentido aquí el que da batalla a los vacíos.
¡no nos gusta la guerra!, ni merope
aquella sangre que gotea es el apetito del hombre, su coacción carnal, no nos interesa ahora, el biologismo: hablamos aquí del hambre y de la agitación del concepto y del ser, en la forma: de la realidad del pensamiento.

y entonces: una caja, limpia y simple, de madera clara, es el altar que contiene el calendario armado de los santos, las representaciones de 366 divinidades del alma, grabados lustrosos, en el protagonismo icónico, en urna con el berceau.
los santos son la vida, su carga positiva es llevada sobre el vector de explosión, destinado a quitar, a destruir, a desmembrar.
la guerra atención y análisis, que abre entonces, retratada sobre la lisa carcasa lisomodelada (que suele terminar en pedazos): la coincidencia de las actitudes inversas, que genera el contraste critico, mordaz (en manera negra, mordiendo la plancha, exaltando los efectos de la luz).
la teoria de estos proyectiles, que no van ya en la canana, a armar las metralletas, y sin embargo están, uno al lado del otro, rectos como husos testimoniales, contando la historia de una cultura, la historia de los hombres, que se cumple entre el dar y el quitar, el crear y el destruir, el amar a dios y al resto, y matar, por dios.
los santos armados, guardianes vigilantes siempredespiertos, como asomados sobre el umbral, el bastión, para cargar el obús en el tiro, y en realidad contenidos en la estrecha cámara del proyectil, sin vías de escape, que no les da refugio sino más bien una garita, preparado para la incandescencia (el oro, también, es preludio de una chispa). y están con los pies bien fijados en los polvos de ignición, polvos que sólo pueden mover ellos mismos. los polvos calmados (los santos, no).

y la opulencia del soporte. el negro neto sobre el oro. el oro de los santos de dios y la tradición antigua del icono, la batalla, el desencadenamiento dialéctico de los opuestos, duras las formas dignas de veneración, aplcadas a las superficies lisas preciosas de retablos convexos de guerra, seguras.
oro encendido que estalla, riqueza prodigiosa de proyectiles alineados, el potencial balístico del orden en hilera, potencial humano y más allá de lo humano, que es el arte, que enciende e inflama y arma, la mente que busca, y sabe gestionar la técnica de los maestros antiguos, con las fracturas sinápticas de los hombres nuevos, que vienen ahora y entonces en la historia, a fijarles sus atomos, excavar las raíces, dándolas las formas perfectas de proyectiles, que es el pensamiento afilado que quiere seguir recto, lleno y fuerte, que penetra el muro blando de lo hiérático del concepto atrófico, explotando siempre las luces en el cielo. y cada cielo está comprendido en una grande oscuridad. cada cielo en la caja oscura. y está claro como estos santos-proyectiles tengan trayectorias, aéreas, amplias, abiertas, curvas; múltiples, y circulares, que vuelven.
y no están hechas para ser lanzadas contra un único objetivo uno. volver: es el estar, persistente, que refleja.

los disparos sagrados, la guerra del estar: es decir.

gianluca d’incà levis, borca di cadore, 5 de enero de 2016