5 agosto 2024

Stadio Olimpico del Ghiaccio, Cortina d’Ampezzo, luglio 2024 – Lo Stadio Olimpico del Ghiaccio fu costruito a Cortina d’Ampezzo in occasioni delle Olimpiadi invernali del 1956. Fu progettato dall’Ingegner Mario Ghedina, insieme agli architetti Nalli e Uras, e all’Ingegner Carè per le strutture in cemento armato, e realizzato dall’Impresa Viviani di Cornuda. Stadio Olimpico del Ghiaccio, Cortina d’Ampezzo, giugno/luglio 2024 
Fino ai primi anni ’80, lo Stadio costituiva una sorta di spalto sul paesaggio, aperto sotto al cielo. Le cerimonie d’apertura e chiusura dei Giochi del ’56 si svolsero qui, insieme alle
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25 giugno 2024

Cortina d’Ampezzo si trasforma. Come l’intera Valle del Boite, dove, mentre si avvicina l’Olimpiade invernale Milano Cortina 2026, accelerano finalmente i cantieri sulle varianti della ss 51 di alemagna. Il Paesaggio della montagna dolomitica bellunese si modifica, con i lavori sull’infrastruttura viaria, sugni snodi viari in prossimità o nel cuore dei centri abitati (valle di cadore), con la risoluzione di alcuni storici nodi problematici e strettoie, affidati a tunnel e bypass.   In questo momento (primavera 2024), le gru si moltiplicano. Le gru a torre sono gli alberi meccanici dell’olimpiade.Si restaurano gli alberghi.Il territorio
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20 maggio 2024

Penetrazione territorio. Il Ponte Cadore, visto dalla Cavalera. Il viadotto si trova tra Perarolo e Pieve di Cadore, sotto scorre la Piave, che va alla confluenza con il Boite.Si procede ora (primavera 2024) all’adeguamento statico sismico delle strutture, il cantiere Anas durerà ancora almeno diciotto mesi, forse di più. Nel 2025, saranno quarant’anni dalla realizzazione di quest’opera. Foto Teresa De Toni. – Il Paesaggio si costituisce grazie all’interazione tra il contesto ambientale e il lavoro (le opere) realizzato dell’uomo.Quando l’uomo realizza infrastrutture o grandi architetture, ciò ha un impatto sulla definizione e
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1 maggio 2024

Il Ponte Cadore si trova tra Perarolo e Pieve di Cadore, sotto di lui scorre la Piave, che va alla confluenza con il Boite.Si procede all’adeguamento statico sismico delle strutture, il cantiere Anas durerà ancora almeno diciotto mesi, forse di più. Nel 2025, saranno quarant’anni dalla realizzazione di quest’opera. Ponte CadoreI lavori attuali (2024) Foto: Teresa De Toni, febbraio 2024. – diagonale sinistra tracciato segno paesaggioun’altra esile via di scorrimento, qui a rotaia, binario morto su tratta dismessa sopra sacco di sopra, la linea nel bosco. poco più sotto, altra intersezione in ambiente, ecco i cidoli di sacco e
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Milano Cortina 2026, SS51 di Alemagna. Il tunnel bypass di Valle di Cadore  Da alcuni mesi le “opere complementari” per le Olimpiadi Milano-Cortina 2026 sulla Statale SS 51 di Alemagna sono finalmente partite, e DC continua, attraverso diversi progetti e analisi, a seguirne la realizzazione. L’investimento supera i 250 milioni di euro. Tra i cantieri di Anas in Valle del Boite, vi sono quello di Tai di Cadore, quello di Valle e quello di San Vito. (dicembre 2023) Opere complementari connesse a Milano Cortina 2026. SS 51 di Alemagna. Il tunnel bypass di Valle di Cadore. Cantiere di Valle
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22 aprile 2024

  Cronache d’attualità.Sarà pur chiaro come quella di paesaggio non sia una definizione inchiodata, perchè il paesaggio non è un’ente che cerchi una rappresentazione univoca, ma una permanente trasformazione d’ambito?
Nessun paesaggio è dunque bloccato, né bloccabile, in una forma definita, impermeabile al cambiamento che gli corrisponde – a meno che non ne stiamo considerando una singola configurazione definita, cosa che facciamo volentieri quando ad esempio approfondiamo la storia delle sue declinazioni ad opera dell’uomo. 
Questo però può essere fatto mai nel senso più generale (al di fuori quindi dei casi progettati),
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18 agosto 2023

Tu lo sai cosa sono gli Scarpét?Qui ci abbiamo fatto un workshop a Casso, a dicembre 2022, e da lì abbiamo avviato la ricerca applicata, trovi altri link utili in quel post. Gli Scarpét, o Skarpét, in bellunese, o le furlane, in Friuli. Ste scarpe o “… pantofole rustiche artigianali, tipiche e abituali calzature montanare d’un tempo, costituite da una suola di pezza fittamente trapunta (strapônta) con filo di canapo incerato e da una tomaia scollata, in panno o velluto nero, orlata o foderata, molto resistente … (Enzo Croatto, Vocabolario del dialetto ladino-veneto della Val di Zoldo, Belluno)”. Dolomiti
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17 luglio 2023

Il Cadore tra ’800 e ’900. Perarolo nelle fotografi e di Luigi BurreiIl volume è stato pubblicato a luglio 2023 da Grafiche Antiga A cura di: Elena MaierottiCollana: FotografiaImmagini: a coloriFormato: 23 x 27,5 cm Acquista qui il volume  – Luigi Burrei (1859-1927), originario di Nebbiù di Pieve diCadore (Belluno), visse la maggior parte della sua vita aPerarolo. Fu un commerciante di legname per conto delladitta dello zio, Andrea Burrei, e, nel contempo, anche unappassionato fotografo amatoriale. Di questa sua attivitàdilettantistica, quasi interamente inedita, è rimasta traccia inun corpus fotografi co di proprietà dei suoi eredi. Tale archivioconsta
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22 giugno 2023

  Dolomiti Contemporanee è nel volume THE LAST GRAND TOUR – Contemporary phenomena and strategies of living in Italy, curato da MICHAEL OBRIST (feld72) & ANTONIETTA PUTZU, e pubblicato a giugno 2023 da Park Books.[...] Per gran parte del XVI secolo fino all’inizio del XIX, il Grand Tour in Italia è stato una parte importante della formazione degli aristocratici europei. Seguendo questa tradizione, questo libro analizza da vicino l’Italia di oggi, concentrandosi sul tema dell’abitazione come indicatore delle interrelazioni politiche e socioeconomiche [...] Il contributo di DC è un saggio dal titolo: Il riuso del Patrimonio storico
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23 maggio 2023

  le fogge delle rocce nella storia dell’arte – studio comparativo per musei con l’iphone. esclusivamente i DETTAGLI, spesso -non sempre, spesso- in cornice fondale, di pietre e montagne, portati a macro, estratti-isolati (scavàti), prim’abbozzo di un progetto di estetica iconografica geologica montana, rassegna di pittogeologia alpina, abaco delle crode oleate, etc. Pietro del Donzello (?), 1487, La partenza degli Argonauti. (architetture del vello). – Bramantino, L’adorazione dei Magi, 1500, National Gallery.e ancora nel ‘500 (quando mai oggi più), l’artista gli era l’architetto della natura pure sapiente (delle nature pure), da cui
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Dirsi esperti, saper vedere. Oppure parlare senza capire.


Premessa:

S.T.R.E.A.M (Sostenere il Turismo sostenibile, la Rigenerazione urbana e la promozione delle Arti in aree Montane)” è un progetto Interregionale tra Italia e Austria, a cui abbiamo partecipato marginalmente, trovandoci noi e non per caso a Pieve di Cadore, tra il 2017 e il 2019, a proporre un’idea di rilancio per il Forte di Monte Ricco attraverso un programma di Cultura e Arte Contemporanea, insieme ad una visione che non ha attecchito. 

Il triennio di lancio sarebbe dovuto servire, se volessimo stare in una prospettiva costruttiva e non estemporanea, a impostare il ragionamento, per poi sostenerlo.
Non ad aprire per poi chiudere.
Come sa bene chiunque abbia gli occhi e sappia guardare, noi con DC mai ci siamo limitati a “far le mostre nelle scatole vuote”.
Piuttosto, articoliamo e sviluppiamo processi organici di valorizzazione, come a Casso o a Borca.
Serve un convincimento forte e una consapevolezza ampia, di cosa siano Cultura e Contemporaneo, per affidarsi ad essi e farne strumenti concreti del lavoro da parte dei soggetti responsabili, proprietari o gestori delle strutture, che son tutte potenziali gangli e centri di attivazione del/nel/per il Paesaggio (Urbanistica Culturale).
Altrimenti si lavora per niente, alla cieca appunto, confidando in non si sa cosa mai. Conosciamo enti, amministrazioni, persone, che capiscono il Contemporaneo, lo vogliono sul serio, e contribuiscono ad innescarlo.
Con costoro è un piacere lavorare, e i risultati arrivano.
Tutto ciò è mancato a Pieve. Dopo tre anni, si son fermati. Non hanno capito. Non hanno insistito. L’abbiamo detto e scritto in molti luoghi, anche qui.

Ma insomma, questo è il contesto. Ora invece siamo su Stream, progetto di cui non parliamo, anche lì avremmo diversi scetticismi, ma ora il tema è un altro.
All’interno di ‘sto progetto, è stato dato un incarico a Moreno Baccichet, che si dice sia esperto di arte partecipata. Alcuni gli credono (al fatto di dirsi esperto), altri no. 
L’arte partecipata o relazionale è una cosa assai complessa, problematica e pericolosa e poco paradgmatica: spesso male intesa, o fraintesa, o mal fatta. Perchè è un ambito questo della discussione critica in merito all’arte pubblica, dove non esiste mai un’unica visione e ricetta (quella vale, alle volte, per le torte, diremmo con l’amico nostro Tommaso Anfodillo).

A Baccichet, all’interno di Stream, han chiesto dunque di curare una ricerca e le ricerche bisogna saperle fare. Titolo della pubblicazione, presentata a dicembre 2020: Arte e rigenerazione territoriale nelle aree montane.

 

Alle pagine 83/87, Baccichè? si prova a parlare di Dolomiti Contemporanee. Mica ci riesce. Pensa male DC, quasi tutto, o molto, sbagliato, orpo di bacco. Una cecità grave.

Quando, a novembre 2019, abbiamo letto la bozza avanzata della pubblicazione, piuttosto stupefatti, abbiamo Visto la sua Cecità, rispetto a noi. E gli abbiamo scritto subito, anche se eravamo di corsa, impegnati in cose più importanti, per noi. Le cose importanti sono semplicemente quelle fatte bene. Abbiamo però trovato allora il tempo per una replica istantanea. 
Perchè se la meritava. E perchè la critica non è mai elusiva: è una funzione reattiva che apre scava e intavola.

Ho scritto io stesso tale replica al volo e di getto, e l’ho girata allora subito a diversi artisti che han collaborato con noi negli anni, oltre che allo staff DC. Voi stessi potete leggere qui di seguito il testo baccicato e la replica mia, e farvi un’idea. Lo pubblico ora perchè ora è stato pubblicato il libruzzo. Non aggiusto lo stile informale né elimino l’impostazione personale della replica: era una mail. La leggete nuda: com’era è. Noi siamo nudi, in effetti. Forte che Baccichet invece è travestito?

La parte che riguarda DC si trova alle pagine 83/87, qualche passaggio alle pagine seguenti. Qui di seguito la nostra replica, che riporta, virgolettati, alcuni dei passaggi truci che contestammo e contestiamo eccome.

Moreno Baccichet:

[… In modo profondamente diverso Dolomiti Contemporanee agisce sulle strutture abbandonate o sottoutilizzate in ambito alpino. Qui il riferimento non è più quello a una comunità in crisi, ma ancora molto radicata nel suo territorio. Dolomiti Contemporanee agisce su complessi di immobili abbandonati riutilizzandoli attraverso tattiche temporanee che fanno riferimento alle esperienze artistiche. Si tratta, a differenza di Gmund, di Dordolla e di Topolò di interventi che non sempre prevedono un rapporto tra popolazione ed eventi artistici, anzi. Alcune volte la visione della stessa esistenza in ambito montano sembra diametralmente opposta tra quella proposta da Dolomiti Contemporanee e quella della popolazione locale, e non sono rari i casi in cui si sfiora la polemica. Il curatore, Gianluca D’Incà Levis, non si fonde con la popolazione locale, ma esprime una voce diversa sul futuro di valli e villaggi. Usa l’occhio forestiero per modificare la visione che gli abitanti hanno del loro ambiente. Il caso di Erto e Casso è esemplare anche per il suo portato storico legato alla crisi dettata dal disastro del Vajont. Non a caso Dolomiti Contemporanee propone il superamento del trauma attraverso pratiche artistiche e il recupero/riutilizzo di un edificio che ha un forte significato simbolico come la vecchia scuola di Casso. I progetti di rigenerazione attraverso usi temporanei sono difficili e a volte rischiosi, ma tendono secondo D’Incà Levis a promuovere una visione contemporanea della montagna. Il moderno registro semantico dell’arte in montagna cerca di dimostrare che anche i territori alpini e pedemontani possono evolversi in una direzione opposta a quella della sola memoria. Non è un caso che Dolomiti Contemporanee sia nata nel bellunese dove lo sviluppo di una tradizione industriale portata verso una costante innovazione ha permesso di conservare un importante livello di popolamento in montagna. Le iniziative nel villaggio ENI di Borca di Cadore 34 e del complesso ex industriale del Sass Muss da questo punto di vista sono esemplari 35. Qui gli usi temporanei, più che a Erto, anticipano le possibilità che le strutture hanno in se. L’arte accende l’attenzione e accompagna la riscoperta dei luoghi, un po’ come sta accadendo anche a Forte Monte Ricco a Pieve di Cadore 36. È un poco come se il rapporto con il paesaggio alpino si esprimesse nell’azione del mostrare le opportunità che esprimono i siti abbandonati. È come se la montagna naturale fosse interrogata ponendo gli artisti in residenza all’interno di strutture che hanno un alto valore simbolico e culturale, oggetti territoriali che si sono già confrontati con l’ambiente e che poi sono diventati dei rifiuti riciclabili. Alessandro Cucagna, geografo di grande interesse, già negli anni ’50 del secolo scorso osservava che lungo il Canale del Piave erano ben visibili enormi “fossili” di economie ormai scomparse. Presso questi fossili risiedono per un breve periodo gli artisti che interpellano i luoghi e producono opere che non sempre, a differenza di Topolò, lasciano segni nell’ambiente. A volte si limitano ad abitare l’ambiente per poi sciogliere timidamente la presenza di Dolomiti Contemporanee. Senza dubbio le pratiche di Stazione Topolò e di Dolomiti Contemporanee sono le più vicine ai temi di cultura artistica e rigenerazione insediativa perseguiti da S.T.RE.A.M. Manca però un rapporto partecipativo con la popolazione e le iniziative sembrano essere mosse da flussi di pensiero e risorse esogene ai territori che le ospitano. Del resto questo problema si intravvede anche in altre occasioni in cui l’arte contemporanea si esprime nei territori di montagna, come per l’esperienza di Biennale Arte Dolomiti che si caratterizza come un modo per valorizzare l’iniziativa del recupero di un’altra struttura militare abbandonata, il Forte Rite a Cibiana. Qui il restauro e la costruzione di un museo voluto da Reinold Messner (Messner Mountain Museum Dolomites) ha in qualche modo potenziato l’offerta museale con questa ulteriore iniziativa 37. Sono più difficilmente catalogabili e documentabili iniziative come quella di Marostica intitolata “La vera natura. Arte pubblica e veget/azioni” 38, che pur essendo molto vicina ai presupposti di S.T.RE.A.M. (Petronici 2017), si è espressa nell’estate del 2016 e non è più stata replicata 39. I punti di forza dell’iniziativa erano quelli dei principi di un’arte pubblica che si esprime attraverso processi di partecipazione che hanno coinvolto gli artisti con una fase di residenzialità e gli abitanti con la possibilità di co-partecipare al fitto programma di eventi previsto come un work in progress. Queste iniziative a spot, chiuse in un panorama temporale estremamente ristretto, non hanno poi la possibilità di adattare gli strumenti alla missione e, seppure pregevoli, non lasciano segni durevoli nel territorio indagato. Questo pone il problema che non ci si può limitare ad affrontare l’argomento con dei progetti artistici, ma che per incidere sui temi della rigenerazione urbana bisogna predisporre un programma di lungo periodo. Questo non vuol dire ripetere le iniziative nel tempo, ma graduare una serie di azioni usando diverse tattiche per raggiungere un obiettivo comune, chiaro a tutti e comunicato in modo efficace. Diventa indispensabile costruire un’idea di progetto condiviso che descriva una politica di lungo periodo per la trasformazione dei luoghi …]

La mail (novembre 2019):

ciao moreno, ho letto, ecco le mie considerazioni, che inevitabilmente portano ad un confronto, dato che su molte cose la vediamo in modo diverso, direi anzi che la vediamo in modo diametralmente opposto. non pretendo che tu accolga le mie note generose (anche troppo generoso sto profluvio, dirai tu: per me invece non è mai troppo, discutere, chiarire, confutare), ma è certo che accompagnerò con esse (che sistemerò: questa è una sorta di bozza scritta di getto, ho pochissimo tempo, sono in partenza e torno tra una settimana, quindi non potrò nemmeno replicare a eventuali tue) la pubblicazione del tuo testo, quando avverrà: io argomento discuto e discetto sempre su tutto, è il logos il mio karma, per dirla in un modo un poco western. 
 ho cura e difendo le idee e i progetti e le persone che lo fanno (staff, artisti, partner, comunità), e il ritratto che fai tu del progetto DC, e quindi dell’impegno di tutte queste persone, è qui, in diverse sue parti, sostanzialmente scorretto e orbo, a parer mio. in generale, e molto semplicemente, credo tu non abbia un’idea di cosa sia DC, l’hai dimostrato. ovviamente uno è libero di leggere i progetti secondo la propria prospettiva. ma non si è invece mai liberi di falsare la prospettiva dei progetti, e nemmeno di parlare senza essersi documentati prima adeguatamente: io non accetto mai recensioni spicce e trascurate, su un progetto che impegna a fondo, nella pratica e nell’intelletto e nell’anima, molte persone brave e capaci e responsabili. 
se poi uno non ha tempo di andare a vedere di persona, ha comunque a disposizione centinaia di testi, migliaia di link, la mail e il telefono: noi ci siamo sempre. non si capisce a quali fonti tu abbia attinto: fonti confuse di certo.
se invece le tue sono solo “considerazioni critiche”, allora è addirittura peggio: poggiano su una incomprensione di fondo di tutto l’apparato di concetto nostro, dell’approccio e della preziosa rete che ogni giorno, con gran fatica, stendiamo sui territori. non vorrei che a te “non piacessero” approcci diversi da quelli che invece ti piacciono. ma di certo non si va a gusto personale, e si analizza compiutamente la diversità, che è la ricchezza. non ce l’ho con te e sono sereno. sereno, chiaro e deciso a far luce, come sempre. 

nella tua descrizione sintetica, schematizzi molto, troppo. ne risulta un quadro pressappochista, e questo è sempre un male. noi non lavoriamo pressappoco, bensì con grande attenzione, quindi preciso alcuni punti. non è facile leggere un progetto come DC secondo schemi, dato che questo è di certo un progetto antischematico, e, direi, polimorfo. per capirlo, anche solo un po’, occorre approfondire. d’altro canto, tanto per fare un esempio, quando sei venuto a borca, avevi fretta, sei stato lì mezz’ora, ne fui alquanto sorpreso allora: ricordi? come si può pretendere di capire un sito e un progetto di generazione di quella portata e articolazione (Progettoborca) in mezz’ora? te lo dissi subito, nel corso della tua visitella col fiatone. 

marc augè ci ha messo una settimana (in residenza), a guardare, a capire. solo dopo ha parlato: a ragion VEDUTA (qua alcune sue considerazioni non sbrigative e assennate, mica una sviolinata). 

tu invece, in poco tempo (pochissimo; frettoloso = affrettato), non hai potuto veder nulla delle mille relazioni che coviamo lì (anche con il paese e le persone: perché non sei andato a parlare al sindaco? perché non hai parlato con gli artisti in residenza? Come la fai la ricerca?). il fatto che tu non ti sia preso il tempo di vederle, non significa che non ci siano; significa invece che non hai condotto una ricerca seria (ci sono anche relazioni problematiche a borca naturalmente –assai interessanti, e su cui lavorano almeno cinque artisti-, ma non ci solo quelle, vivaddio; questa semplificazione viene da un’ignoranza di fondo della complessità radicale del contesto e della nostra pratica). i punti principali in cui l’analisi tua è condotta in modo approssimativo sono questi (ovviamente uno interpreta e legge quel che crede, come crede, ma a me sta precisare, tanto più che mi hai chiesto tu di leggere e darti un’impressione): dici: “Dolomiti Contemporanee agisce su complessi di immobili abbandonati riutilizzandoli attraverso tattiche temporanee che fanno riferimento alle esperienze artistiche.” 
se questa vuole essere la sintesi, manca di diverse cose essenziali e fondative e basilari, che vengono ben prima di quel che hai scritto, e che fondano l’azione (senza preesisterle: qui da noi pensiero e azione coincidono nella pratica, non si succedono). 
DC non agisce su “immobili”, ma su Patrimonio e Paesaggio, c’è una bella differenza. Forse che per te il vajont e il villaggio di corte di cadore sono degli “immobili”? questi sono i centri della nostra riflessione e azione culturale (riflessione operativa). Dice immobili un geometra immobile o ragioniere della cultura (ma quale cultura?). 
non c’importa nulla degli immobili (rifiutiamo ogni giorno proposte su manufatti che consideriamo dotati di potenziale insufficiente, e quindi distrattivi): c’interessa del valore perduto di Patrimonio nel Paesaggio (mutili), e dell’identità della Montagna, ogni giorno ridicolizzata o inaridita da stereotipi (e dai pensieri schematici). lo dico e lo scrivo dal 2012, e in realtà da prima ancora, basta leggere. altrimenti potrebbe sembrare (ma a chi mai?) neoimmobiliarismo culturale, o imperialismo neomonumentatore. non lo è. i siti sono scelti per il valore straordinario e peculiare che possiedono, e che però è perduto, o attualmente indisponibile all’uomo, ai territori. sono pochissimi tra i molti, quelli che affrontiamo. e però nessuno è fin ora riuscito a scuoterli. solo per decidersi ad affrontarli, è necessario un impegno grande, e una grande volontà.

poi direi che noi non adottiamo tattiche di sorta, ma strategie. tattica è sbagliato. è ben diverso. non c’è nessuna battaglia estemporanea, e la visione di campo è aperta, non stretta (quindi al limite c’è una guerra, non una battaglia, da fare: contro l’ipovedenza, della gestione di risorsa, e anche della lettura culturale – deficit di critica e cura). tattica e strategia son due cose ben diverse. la seconda presume la visione, la prima non necessariamente.

l’idea di fondo, molto più generale, molto più a monte del recupero dei singoli siti problematici che giacciono in stato di criticità (e che io considero risorsa pubblica, e mai privata, al di là della loro legittima proprietà: il loro valore è pubblico, come anche la nostra azione, che vuole restituirli, una volta riattivati, al territorio e alle comunità: guarda un pò), l’idea di fondo dicevo, è questa: non tanto concepire (a freddo, in teoria), quanto REALIZZARE (darle corpo, fisico e intellettuale), attraverso una pratica, un’idea della montagna quale spazio dell’azione e interazione culturale tra gli enti. 
gli enti sono gli uomini, i gruppi di uomini, gli assetti del territorio (comunità, società, enti amministrativi, tessuto produttivo, enti di sviluppo, e così via), e le cose, ovvero la natura, l’ambiente, i paesaggi, gli elementi e i temi, l’artificio e la frizione (ad esempio l’architettura). 
a noi la montagna sembra mortifera non perchè si spopola di persone, ma perchè si spopola di idee. dove per idee intendo: enti di senso o costrutti praticabili; pratiche di senso plausibili (non attività onirica o teoria). 
tra le pratiche di senso, ce n’è una responsabile che abbiamo scelto: quella della rigenerazione. grandi siti perduti, il cui recupero non può essere affidato solo alle comunità locali, perchè la loro inerzia è eccessiva (per motivi diversi: l’inerzia può essere la tragedia -vajont-, oppure la fine di un’epoca o di una parabola produttiva (ex fabbriche), la dimensione ed il peso storico del sito, la profondità dello sprofondo, altro ancora), e perché il problema non è risolvibile alla scala locale (nel caso di borca) oppure perché il problema non è eminentemente locale (nel caso del vajont, che è un luogo emblematico che in virtù della vicissitudine storica esubera ampiamente la propria collocazione fisica in seno ad un’area topica; inoltre, il considerare il vajont cosa privata di ertani e cassani e longaronesi –e quindi anche il voler lavorare esclusivamente con loro, con queste comunità locali- vorrebbe dire lasciarli soli, irresponsabilmente, egoisticamante, in modo chiuso e miope e schematico, e consentire quindi la “privatizzazione” –altrettanto egoica- di una vicenda che invece riguarda tutti, dato che è universale; il vajont appartiene a tutti gli uomini della terra –mica a noi, che siamo un reattore, uno stimolatore, una tecnica critica, un enzima, una metodologia politica propositiva immaginativa. questo è un progetto condiviso d’arte pubblica che DC ha lanciato nel vajont, non lo sapevi?
 i siti (le grandi fabbriche dei primi anni, 2011/2013) hanno spesso dato luogo a tentativi di recupero e riavviamento precedenti al nostro avvento, tentativi che sono falliti, perchè non c’era un’idea (massa critico-plastica trasformativa) abbastanza forte e buona. quei tentativi erano TIMIDI (incerti, leggeri, inorganici, stupidi). ovvero, non c’era un’idea culturale, all’origine del tentativo, ma, al massimo, un investimento economico privo di visione funzionale.

bene, una (la nostra) visione funzionale è fornita dall’impianto culturale, dalla buona capacità di lettura del potenziale del bene-deperito-in-cratere (questa valutazione la compiamo noi, è soggettiva, deliberata: è una scelta della cura), dalla capacità di strutturare reti territoriali ed extraterritoriali (abbiamo oltre 500 partner a sostenere le nostre progettualità: questa è una partecipazione che puoi comprendere? oppure forse si pare un parterre industriale? se è così, sbagli tutto) che condividono l’obiettivo della rigenerazione di un ganglio-che-fu e che può tornare ad essere, e della cultura-strumento appunto, intesa quale elemento costruttivo-eversivo, e non come descrittore della crisi o speranza nel risorgere del tumulo. l’arte contemporanea è il piccone e la mina, ovvero la tecnica privilegiata di un’azione che alle volte definisco d’alpinismo culturale, che dà la scalata al Patrimonio inerte, che a ben guardare non è perduto o esausto, ma semplicemente invisibile a chi non possiede uno sguardo armato e reattivo. di tutto ciò (che non è una teoria, ma la base dell’azione), non c’è traccia nella tua descrizione sintetica, e quindi molto deficitaria, di DC (non è questione di numero di battute, quelle le sai tu. è questione di corretto intendimento del progetto: se lo spieghi male non l’hai capito, o non l’hai ammesso: càpitano, ste tristezze). come puoi definirci esterni al tessuto, se abbiamo 500 partner (non sponsor, partner), ovvero enti, aziende, ovvero persone che lavorano, che credono in noi, e vengono con noi, che lavoriamo con loro? totale fraintendimento.

dici poi: “Alcune volte la visione della stessa esistenza in ambito montano sembra diametralmente opposta tra quella proposta da Dolomiti Contemporanee e quella della popolazione locale, e non sono rari i casi in cui si sfiora la polemica.”

e ancora: “Presso questi siti risiedono per un breve periodo gli artisti che interpellano i luoghi e producono opere che non sempre, a differenza di Topolò, lasciano segni nell’ambiente.”

ora, se da un lato è evidente che non spregio nè temo la polemica, dall’altro è vero pure che non è la polemica, ma lo spirito critico e di reazione e l’impegno personale, ad animare l’intendimento primo del progetto, che vuole restituire potenziali frustrati al territorio, contribuendo al loro riscatto attraverso un’azione temporanea e trasformativa e condivisa che l’arte (insieme a molte altre forme della ricerca, della cultura d’innovazione, del pensiero agito), può produrre e insufflare, mentre gli altri (enti o persone, locali), non son riusciti ancora a fare (in sintesi: perchè non facevano le reti: ovvero la cultura: non avevano una buona “idea praticabile” di cosa sia la cultura-piccone, che è cosa assai diversa dalla cultura-che-decora-e-si-compiace). non c’è alcuna visione imperialista dunque nel nostro approccio (forse temi questo? ma allora hai un pregiudizio! attenzione: non bisogna nutrire ed alimentare pregiudizi, mai; si diventa acidi), e noi stessi, spesso, veniamo cercati da quegli stessi “locali” che ci vedono all’opera e ci selezionano, chiedendoci di avviare, insieme a loro, la progettualità rigenerativa. questo vale ad esempio per il vajont (ci ha cercati un sindaco), per borca (ci ha cercato la proprietà), per monte ricco (ci ha cercato un ente gestore). nei casi invece in cui “deliberatamente imprendiamo l’idea”, cioè a dire quando siamo noi a individuare il sito ed a proporre il tentativo di riabilitazione, anche lì, da dove si parte? ma dalla rete locale, vivadddio, da dove vuoi partire? si trovano uno dieci cento partner. cioè: si cerca e si trova la partecipazione del territorio. poi, si portano molte altre forze e buone dall’esterno, a condividere l’intento. fare questa struttura, significa voler istituire relazioni, e saper creare un intendimento politico e una motivazione, che non c’era (o che si era perduta).

in questo senso, ancora, selezionando noi siti e aree in stallo endogeno, sulle quali decidiamo di operare, è vero che, a guardar con poca attenzione (o comunque un’attenzione non sufficiente a dar ragione del nostro approccio e lavoro), possiamo essere detti “forestieri”. la realtà però è totalmente diversa, e, anche qui, ben più complessa, e però ben visibile: basta guardare. la realtà è che noi, dal 2011 (ma già dal 2009), “andiamo a vivere nelle fabbriche” abbandonate che vogliamo rigenerare. 
 tu ci vieni per mezz’ora (a borca ad esempio). noi ci viviamo da sei anni. cosa mai puoi pretendere di capire, così frettoloso? tra l’altro, vedo pochissimo rispetto, in questo tuo andare a giudicare con gli occhi mezzi chiusi e trenta minuti a disposizione. 
 io ho vissuto più di due anni a casso, passando progressivamente di stato, proprio come avevo voluto e previsto: da forestiero incompreso e osteggiato (togno – ed era giusto: legittimo scetticismo per il nuovo da parte dell’abitatore del luogo, un sospetto forse un po’ simile al tuo), a residente-resiliente: non autoesiliato, dato che ho scelto. non sono andato a casso a fare un convegno sulla partecipazione e sull’arte pubblica. sono andato a viver lì, ovvero a partecipare di quel luogo ad un livello esistentivo, mica professionale (ma non sono un dilettante: il dilettante si muove a caso). 
infatti, vivere-nella-fabbrica (o nel paese), è condizione essenziale alla strutturazione di reti di condivisione efficaci.
 che piaccia o no il “mio stile” (ma a me gli stili non interessano, e mai essi devono esser messi avanti alla sostanza della cosa, altrimenti si fa il vaglio critico in base alle simpatie, o antipatie: lo fanno i piccini culturali), che alcuni forse possono giudicare “troppo aggressivo” (e chi l’ha mai deciso, questo troppo?), resta il fatto che io (e noi: anche altri membri del gruppo di lavoro DC fan scelte di vita impegnative e vivono nelle fabbriche, per mesi o anni, dal 2011), vivo nel cantiere che ideo. la presenza nostra è totale, nel contesto. il nostro contesto culturale è esistentivo. e diviene anche un contesto di attivazione: un cantiere. grazie alla presenza. si lavora dove si vive. non si lavora nemmeno, sta parola è pigra: si è qui. si vive dove si vuol vivere. nella montagna, che va sempre ripensata (Fare il paesaggio, dice Gellner; contribuire a spingerlo e cogenerarlo, diciamo noi, che non crediamo alle cose ferme, ma alla trasformazione). e nei luoghi critici. perchè siamo picconatori e sminatori (dei campi d’inerzia).
 al centro di tutto, e alimentata dalla nostra presenza costante, che instaura un dialogo con i paesaggi (fisico, umano, sociale, culturale, economico) c’è l’istituto fondamentale: la residenza. 
in nove anni, abbiamo ospitato oltre mille artisti da tutto il mondo, e, da quando siamo a borca, almeno altre duemila persone (tra cui antropologi, scienziati, scrittori, paesaggisti, forestali, etcetera). non è una questione di quantità: ma di metodo, di generosità, di apertura, di capacità di network e di trazione. servono reazioni adeguate, larghe, se vuoi scuotere i feretri insigni, negare il cimitero.
 i periodi di residenza per gli artisti sono assai variabili: da pochi giorni a mesi ad anni (c’è chi, per sviluppare il lavoro, è tornato decine di volte, negli anni, stabilendo un enorme numero di connesioni a favore di processi unitivi con persone, enti, territorio: come mai non li hai visti? li hai studiati i progetti degli artisti? posso farti cento nomi. marta allegri. giorgio orbi. evelyn leveghi. lorenzo barbasetti di prun. altri novantasei, almeno, se vuoi. ma non hai mica voluto). quindi è del tutto errato e grave sostenere che gli artisti vengono per brevi residenze. qui dimostri di non sapere le cose. le cose, come ti sto spiegando, son ben più articolate.

per quanto riguarda la “visione diametralmente opposta a quella della popolazione locale”, anche questa è una semplificazione, addirittura un’illazione. a casso ci ha chiamati, e voluti, un ertano (ripetiamotelo), che ci ha scelti per la modalità dell’approccio nostro. ci ha scelti perché l’approccio nostro, e suo, non era troppo TIMIDO, come potrebbe pretender forse qualche pastore o prete del sottovoce. perché voleva una reazione decisa, finalmente, e non un curatore fallimentare o una prece, nel vajont. e nemmeno un convegno con un relatore. è poi chiaro ed evidente che non si va d’accordo con tutti: non bisogna cercarla, l’ecumene integrale, nella cultura. devi scegliere. è chiaro ed evidente che ci vuole del tempo per penetrare. è chiaro ed evidente che, se vai a vivere a casso, sei un esploratore, un antropologo e un provocatore al tempo stesso, uno studioso e un rimestatore: ti devi presentare, devi farti accettare, non dal solo sindaco (che però è un uomo di quella terra, non una carica istituzionale).

non hai studiato i lavori degli artisti, questo lo considero grave, è grave, li offendi, non vedendoli, non guardandoli, non cercandoli. mi piacerebbe che fossero loro a risponderti, gli girerò il tuo testo e questa mia replica (non voglio che tu ti dia l’alibi di un mio risentimento che non c’è affatto: credimi. io sto dicendo come stanno le cose, e sono più che sereno, la mia è un’analisi scientifica, culturale, tecnica, del tuo granchio- un grosso granchio). come sempre, tutto è aperto, e pubblico, nel mio procedere, che non è solo mio. credo sia giusto mettere tutti a parte ora di questa cosa. la responsabilità pubblica è una cosa più vasta dell’arte pubblica: e la include (qualche volta).

decine di lavori, negli anni, sono stati prodotti e realizzati in seno alle comunità, creando relazioni importanti ed edificanti con le persone (a me interessano le singole persone, non le astrazioni: comunità è astrazione. non si va d’accordo con una comunità. si va d’accordo -o si litiga-, come una singola persona). a casso, potrei citartene moltissimi, di artisti-con-le-persone. andrea grotto sulla legrosega. elisa bertaglia ad entrare in ogni singola casa. pamela breda. la mostra tò’nòn ignà. ti sei documentato prima di asserire? no.

dopodichè, siccome DC è vasto (forse temi le vastità?), e apre a moltissimi temi (sviluppiamo progetti nei progetti, li pensiamo e avviamo e li costruiamo negli anni: Tiziano Contemporaneo ad esempio, non è un progetto che si sviluppa con le persone, ma su Tiziano Vecellio). Cantieredivaia è un progetto nato nel 2019, che ci mette in relazione con decine di enti di ricerca (ma anche con decine di forestali: che sono altre persone delle comunità: a casso c’è ora una mostra, Fibra flessa, che vede filippo romano ritrarre gli abitanti delle terre e delle comunità colpite da tempesta vaia: non gli alberi schiantati, in un compianto passivo. lo stesso ha fatto giorgio barrera. e così via. moltissimi lavori dunque, che non hai visto, che non ti sei degnato di studiare, con ciò decidendo arbitrariamente che non esistono (ma invece esistono eccome), quindi negandoli (un negazionista!) – sono stati posti e realizzati nella relazione con persone e comunità, DA SEMPRE, caro il nostro moreno, da sempre. 
 se poi uno pretende che tutti i lavori debbano essere realizzati in relazione a persone e comunità, e che ogni scampolo d’arte sia relazionale e partecipata, questo qualcuno non sa quel che dice, ed è un impositivo, e non sa pensare in modo aperto e ampio. nessuno deve pretendere che gli altri (tra cui gli artisti) facciano le cose secondo le inclinazioni, le predilezioni, gli schemi mentali, i tic, le fissazioni e le ideologie proprie. ci sono lavori fatti con la gente, e lavori fatti senza la gente, su altri tematismi, per fortuna. ad esempio ci sono bellissimi lavori “muti”, o selvatici, o solitari. è giusto e normale che sia così (oltre al fatto, altrettanto evidente, che un buon lavoro è comunque e sempre un’opportunità di dialogo e riflessione, oltre chè una plastica dell’immaginazione). non siamo all’oratorio qua. non si può generalizzare. se lo fai sbagli, e se lo scrivi, addirittura, menti.

l’ambizione nostra, certo, non è totalmente ecumenica, si diceva. noi siamo aggressivi nel senso che smuoviamo le inerzie. quindi qualcuno può non apprezzare. se vuoi smuovere un sasso, na leva dovrai pure usarla, o tu provi con la psicocinesi partecipata? è nella fisiologia del processo di rinnovamento, questo: l’incontro propulsivo produce anche scontro. la polemica, in ciò, va benissimo, chi la teme è troppo TIMIDO. noi affrontiamo siti complessi, gravati da problematicità complesse.

ah, poi dici cose discutibili anche sulla montagna: un importante livello di popolamento garantito alla montagna bellunese? questo, tolta luxottica, è un dato degli anni 60/70; abbiamo perso il 20% negli ultimi anni, (mentre i più bravi attorno, trento e bolzano, guadagnavano un TIMIDO 2%).

quando scrivi che le opere “non lasciano segni nell’ambiente”, per me non hai idea di cosa voglia dire ambiente. ne dai una definizione piccola e chiusa. mi raccomando, non spingerti troppo in là con l’idea, per timor di tonanza. ambiente è contesto. quando, lasciate le fabbriche rigenerate nei primi anni, esse sono state riprese dal territorio, ovvero riusate da partner “eccitati” dalla reazione innescata da noi con loro, forse che l’ambiente (umano, sociale, fisico, culturale, economico), non è cambiato? è cambiato eccome. eppure nemmeno questo hai visto. lo sanno anche i sassi. si son fatte dieci tesi di laurea su questo, a cà foscari. cambi l’ambiente se intrecci un giunco nel bosco, se lavori con un singolo paesano, e non se incidi nel suo tessuto socio-economico??? ma come lo ragioni questo concetto di pubblico? DC è un laboratorio d’arti visive in ambiente, ma è anche una grande macchina processatrice del territorio, che collabora con esso e ne smuove le inerzie, cambiando e ribaltando situazioni di stagnanza atavica.

ancora, quando dici: “gli artisti si limitano ad abitare l’ambiente per poi sciogliere timidamente la presenza di Dolomiti Contemporanee. Senza dubbio le pratiche di Stazione Topolò e di Dolomiti Contemporanee sono le più vicine ai temi di cultura artistica e rigenerazione insediativa perseguiti da S.T.RE.A.M. Manca però un rapporto partecipativo con la popolazione e le iniziative sembrano essere mosse da flussi di pensiero e risorse esogene ai territori che le ospitano. Del resto questo problema si intravvede anche in altre occasioni in cui l’arte contemporanea…”

dici, ancora, una cosa profondamente sbagliata e superficiale. (tu forse hai ritenuto che, siccome io “pongo” un progetto, dunque lo “impongo”. dimostrando ancora di non capire. io faccio reti con le persone, nulla è imposto. ma, certo, difendo e attacco, quando serve. avresti potuto (dovuto) interpellare gli artisti e le persone. se vuoi, ti faccio parlare con mille persone che hanno intessuto rapporti con altre mille. ma niente. mica ha voluto lui, interrogarsi un tantinello più a fondo. le prime mille (artisti), non sono forestieri, ma ricercatori che pongono rapporti. le altre mille, non sono comunità: ma singole persone ricettive, quando vogliono ricevere (e anche quando non vogliono), che abitano i territori.

del resto, questo problema (la schematicità d’interpretazione di progetti troppo aperti per poter essere intesi da chi li guarda con gli occhi socchiusi), si intravvede anche in altre occasioni (parafrasi diretta): ogniqualvolta non si è attenti e aperti nel guardare e giudicare (ma non bisognerebbe giudicare, in certi casi).

continuo: altro che sciogliere TIMIDAMENTE, come scrivi. 
 a tal proposito: non credere che io abbia voluto sottolineare a più riprese il tuo infelice TIMIDAMENTE perché sono un arrogante muscolare. io non sbraito né sfotto. rispondo invece alla provocazione sminuente di uno che non ha studiato gli esiti dei cantieri di rigenerazione e del nostro accuratissimo lavoro intellettuale e relazionale, che ha un respiro e non il fiato corto. 
 non si scioglie timidamente la presenza di DC, dopo un’azione su una fabbrica. si scioglie invece, grazie a un forcing faticosissimo e assai ben costruito e pensato, un nodo problematico, e talvolta si contribuisce a risolverlo, quel nodo, scatenando una reazione d’interesse ad ampio raggio e spettro.

così, le fabbriche-inghiottitoio sono tornate ad ospitare attività (fatte dagli uomini, che fanno le comunità): ecco perchè il territorio ci vuole, ci considera interlocutori utili e coprogettatori del paesaggio (che è una cosa diversa da: chiosatori tignosi), e il nostro credito è sempre cresciuto. abbiamo raggiunto un risultato dove non c’erano riusciti la governance, l’economia, l’impresa.
stando fuori, benedetto figliolo, secondo te, o invece andando al nocciolo, scavando il nocciolo? 
son stati scritti decine di saggi su questo. e tu dici che ci sciogliamo timidamente dopo la festicciola autistica, o il trattenimento posto dall’alto, o dall’esterno. perdonami: hai capito nulla (noi non perdoniamo te).

mi fermo qua, anche se avrei appena iniziato, in realtà (un’altra cose tutta da discutere sarebbe l’assenza di una posizione critica in merito alla qualità del lavoro degli artisti nel tuo scritto qua: gli artisti che invitiamo noi sono bravi e forti. ma tu parli di progetti forti e deboli senza saper porre una differenza. la Biennale Arte Dolomiti, o altre robe così. il regesto acritico, è sempre inutile, e anche dannoso –la critica è scegliere, includere ed escludere-. la critica, poi, è buona o meno. dipende dalla capacità di leggere la realtà senza sovrascriverle i propri filtri fisiologici. 
chiudo con un altro concetto buono, da te usato a sproposito: quello del rischio che paventi. dice marc augè, dopo aver capito DC: 
 “… si tratta di uscire dal passato per immaginare il futuro. L’arte ha valore se inizia qualcosa, se inaugura qualcosa. Ed è quest’idea d’apertura che mi sembra preziosa, nel progetto Dolomiti Contemporanee in generale. 
L’inaugurazione non è il rifiuto del passato, ma l’idea di ricominciare, che è essenziale.
 Penso che questi siano luoghi spettacolari, luoghi meravigliosi, che impongono rispetto. E ho l’impressione di capire meglio la volontà del progetto DC dopo aver visto questi luoghi. 
In generale, credo che ci sia in questi siti la volontà di fare una scommessa sul tempo contro la storia.
 Il sito di Borca di Cadore è un luogo che tenta di rivivere, dopo esperienze ricche ma concluse.
Quest’idea di ricominciare qualcosa è un concetto fondamentalmente estetico, allo stesso tempo creatore e realista, perchè si tratta di fare arte in un luogo che cambia funzione, e che, in un certo senso, somiglia a una rovina. Non sappiamo più a cosa serviva, o meglio, lo sappiamo, ma è una cosa morta ormai. E questo modo di tentare di far rivivere un luogo nelle sue velleità attuali, indipendentemente dal suo passato, è qualcosa che influenza il tempo e la storia. Si tratta di salvare il tempo, superando la storia. Non si tratta di negare la storia ma di tenere conto del fatto che è passata, ha un inizio, una fine, e un seguito. E questo seguito è un rinnovamento, un nuovo inizio. Credo che questi siti non solo autorizzino questo genere di approccio, ma lo impongano, in qualche modo. Credo che l’impresa di DC sia un’impresa aperta e ambiziosa. Ha i suoi rischi e le sue promesse. Ed è proprio l’equilibrio tra i rischi e le promesse, che è bello. E’ la gloriosa incertezza dell’arte…” per la verità e la cura, e senz’alcun rancore

gianluca d’incà levis, 6 novembre 2019

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e insomma l’avete letta, la mia replica al povero baccichet.
l’han letta anche gli altri, compresi i bravi artisti attenti e i giuovani architetti che collaborano con noi. alcuni di essi han voluto intervenire (dopo essersi informati appunto: a differenza sua, una grande, strutturale differenza). riportiamo qui di seguito le loro considerazioni.

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Caterina Shanta:

Creare comunità attorno ad una operazione di marketing territoriale implica che essa può esistere solo finalizzata all’attività di vendita del prodotto. Quello che mi spaventa di questa analisi è che ci sono tre concetti cardine entro ai quali sono inscritte tutte le considerazioni attorno alla cosiddetta Rigenerazione Urbana:

Arte intesa come attività solamente utile all’attrazione turistica: quindi binomio arte-turismo che ha distrutto e depotenziato completamente il settore culturale e impedito di fatto una progettazione a lungo termine diversa dalla vendita da mercatino;
Arte intesa come tattica e non come collaborazione: l’uso di questa parola implica un gergo militare di conquista e colonizzazione di territori attraverso un certo tipo di ideologia orientata all’estrazione del valore e del profitto a mio parere distruttiva e non costruttiva;
Il valore politico dell’arte inteso come strumento propagandistico di una operazione commerciale: questo è un insulto a chi l’artista nel contemporaneo lo fa di mestiere, implica una strumentalizzazione ed uno sfruttamento delle idee dell’artista che vengono piegate ad una ideologia dedita al neoliberismo commerciale, cosa che tra l’altro ha contribuito allo spopolamento e alla disintegrazione identitaria dei suddetti territori che si vogliono “salvare” attraverso la “rigenerazione urbana”. In questo modo si riproduce il problema iniziale.

Inoltre anche l’idea di salvare ha un’impronta paternalistica o maternalistica, se non in certi casi colonizzante e uniformante. Bisogna a mio avviso cercare di capire perchè si vuole salvare qualcosa e con che scopo. La risposta a queste domande dice molto di noi stessi.

Nel testo non si scava a livello contestuale, domandandosi perchè quel luogo è rimasto spopolato e quale trauma ha destrutturato l’identità locale (per fare questo bisogna fare ricerca, stare nel luogo e capirlo). Ci sono luoghi che non hanno più popolazione perchè non sono più interessanti, non hanno più storie da raccontare, quindi si spopolano e vengono poi “rigenerate” in scatole vuote da riempire con eventi e attività estemporanee dedite al turismo indifferenziato. In questi luoghi si può stare poco, come al centro commerciale.
Invece ci sono luoghi che qualcosa da raccontare ce l’hanno e parlano non solo a chi ha deciso di restare, ma anche a chi vive altrove. Questa è la differenza. Io non vivo in quel luogo, ma esso mi parla perchè dice qualcosa anche di me, di come sono ora e di quello che vorrei o non vorrei per il futuro. Posso progettare in quel luogo, posso andarci e stare del tempo, posso tornare. Al mercatino non progetto, al mercatino ci vado perchè voglio farmi un giro, forse comprare qualcosa, dice di me che mi piace vedere cose e persone, ma non ci lavoro. Non è il mio lavoro.
Io come artista a Topolò non ci lavorerei mai, non lo trovo interessante, da mio punto di vista appartiene all’universo dell’artigianato e del mercatino, è un altro settore completamente. Poi le attività che vi si fanno sono ottime, non metto in dubbio, però non è paragonabile a Dolomiti Contemporanee per quanto mi riguarda. In DC ci sono luoghi che parlano fortissimo, a volte gridano tanto che non riesci a distinguere le parole, stare li ti aiuta ad individuare un suono tra gli altri, a sintonizzarti su una frequenza. Una storia tra le altre.

Inoltre dal testo non si evince il tipo di lavoro che l’artista è tenuto a fare, ossia se è a titolo gratuito oppure no. Nel caso del titolo gratuito è chiaro che il professionista lo accetta perché ci crede nell’ottica del volontariato civile, quindi nel rispetto di una certa etica, altrimenti deve essere remunerato. Non ci sono scappatoie.

Capita fin troppo spesso che si faccia progettazione territoriale dove i lavoratori dell’arte non sono adeguatamente pagati oppure non siano nemmeno previste forme di supporto minimo alla progettazione e produzione delle opere. Questo è profondamente sbagliato se l’obiettivo degli enti promotori è quello di creare un arricchimento economico per se stessi e per i partner affiliati. Si chiama sfruttamento del lavoratore, è sbagliato ed appartiene a quella sfera del mondo istituzionale che incentiva il lavoro sommerso facendo finta di nulla – da qui anche il depotenziamento del settore culturale in Italia che ricade sul divario generazionale.

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Lorenzo Barbasetti di Prun:

Fino all’altro giorno non avevo idea di chi fosse Moreno Baccichet. Ora mi ritrovo costretto a conoscerlo attraverso queste sue parole, le quali confermano solo che avrei potuto continuare ad ignorarlo per lungo tempo. Se non fosse che il suo sciocco scrivere è andato goffamente ad appoggiarsi contro qualcosa cui tengo, e che da tre anni considero il mio lavoro. E quello di molti altri con me.

Non mi ritengo offeso, né sento la necessità di difendere me o la mia pratica. Ne tanto meno si può pensare che Gianluca o il lavoro di Dolomiti Contemporanee abbia bisogno di essere difeso da ciò che non riesce nemmeno ad ergersi alla dignità di critica. Avrei quindi potuto e voluto continuare ad ignorare chi fosse costui, fosse stato solo per la sua incapacità di comprendere. Ce ne son stati molti qui, ne salgono tutti i giorni a fare le passeggiate postprandiali, ventre fiacco e mente uguale. Inebetiti da ciò che credono di vedere nel paesaggio, contemplano la montagna e frignano per ciò che si dice loro di frignare. Per gli alberi, le case, le pecorelle frignano. Poi puntuale arriva il ruttino mal digerito.

Dovessimo difenderci da tutti questi avremmo già perso la vita. Ma alla sciatteria di coloro che hanno il dovere di capire, allora rispondiamo. Per la nostra serietà e per rispetto delle persone con cui continuiamo ad intessere relazioni. Sulle cui spalle non possono consumarsi ulteriori chiacchiere a beneficio dell’ego di chi ritenendosi esperto non si prende il tempo di capire. E scrive.
Questa la grande colpa di questi Moreno Baccichet, ce ne sono tanti purtroppo, che han troppo spazio e tempo per scrivere, mai per comprendere. E non è un limite, ma una colpa. Quando sei chiamato a scrivere hai il dovere di capire, oppure taci.

Non entrerò nel merito delle parole, perché sono evidentemente non organizzate da un pensiero e quello solo mi interessa. L’approccio mentale che in queste non c’è. Mentre noi lo abbiamo. Non c’è nulla da discutere quindi, dal momento che un pensiero (che poi da noi coincide con la pratica) non ha nulla da condividere con la totale assenza di un altro. Non v’è nemmeno la possibilità di un conflitto tra metodi e approcci qui. Ce n’è uno, il nostro, e l’inadeguatezza di una controparte che mal si destreggia nel compito di valutare, avendo strumenti miseri ed autoreferenziali. Pure spuntati.
Critica, ma non affonda mai il colpo, poi lo ritrae. Usa la tattica (la sua, non la nostra) del bastone e la carota. È timido lui, non noi. Noi siamo qui sempre, è lui che non lo si è visto mai. Come avrebbe potuto capire?

Questo l’unico terreno di scontro su cui sono disposto a scendere. Non a difendere il mio lavoro, un pensiero costruito negli anni e messo a frutto. Non sento la necessità di chiamare al mio fianco le tante persone con cui ho intessuto relazioni nel territorio e per il territorio. Né le cose fatte, che lì basta leggere e voler guardare. È evidente non ci sia stato l’interesse quando avrebbe dovuto esserci, ora è tardi. Anche noi scriviamo, poco e lentamente perché prima bisogna capire. E quando si ha capito, in questi posti, se ci sei, prima di scrivere ci sono ancora molte cose che devi capire.
Solo allora scriviamo o parliamo, e non perché c’è dato incarico di riempire un palinsesto. E abbiamo quindi sempre un pensiero a dar forma alle parole, altrimenti si inciampa sui propri piedi se si pensa di puntellare un mezzo pregiudizio con quattro concetti storti.

Non c’è rancore nella mia riflessione, non so chi sia costui. Per me, per chi conosce e capisce, Moreno Baccichet è già ruzzolato a terra da solo coprendosi di ridicolo. E sebbene non sia nobile accanirsi su chi non ha mai avuto i mezzi, nemmeno la coscienza di avvicinarsi ad uno scontro fallimentare, nondimeno l’esecuzione deve essere pubblica ed esemplare. Infatti non tanto lo sprovveduto va punito, ma la premeditata sciatteria sua e di chi gli ha dato fiato. Non l’offesa, che è nulla a noi. Ma il danno perpetrato da chi costantemente diffonde e alimenta, con dolo, stupidaggini per di più fiacche nelle sedi il cui unico compito dovrebbe essere attivare altri paradigmi. E invece continuiamo a vederci propinare le solite flatulenze intellettive, innocue per noi ma che appestano il discorso. Ammorbano e distraggono. E non siete affatto innocui voi che le portate, siete un terribile pericolo per quello che rappresentate. Per il ruolo che vi è affidato e non onorate. Per l’incapacità di capire il peso delle vostre parole e della vostra metodica cialtroneria.
Perché vi interessa solo portare a casa un altro pezzo nel portfolio, le vostre battute, le vostre misere sempre eccessive paghe, l’ennesima inqualificabile voce nel curriculum. Convinti che l’olezzo passi inosservato e che non si possa dare la colpa a voi.
Per questo siete da debellare.

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Elisa Bertaglia:

Chi non conosce Dolomiti Contemporanee, non credo possa capire cos’è DC da quello che ha scritto Moreno Baccichet. Ho letto la sua critica, ma sinceramente credo non abbia colto quello che facciamo – abbiamo fatto – a DC, e quello che il progetto è…
Ho conosciuto Dolomiti Contemporanee sin dalla sua nascita e ho sposato, amato, desiderato il progetto in tutta la sua forza e complessità. Vi ho preso parte in varie residenze e mi sento parte integrante di questo organismo.
Senza voler essere presuntuosa, ma ritengo che nello scritto di Baccichet non si sia colta l’essenza di DC. Non c’è Dolomiti Contemporanee, DC non è quello, ma qualcosa di ben diverso.
Sin dalle prime righe si fraintende a mio avviso quello che DC ha realizzato. Penso forse si faccia riferimento allusivo alle polemiche di Casso, polemiche in cui il mio lavoro si è inserito pienamente e sulle quali ha fatto leva – proprio come dice bene Gianluca – per scardinare pregiudizi e pigrizie colpevoli di un turismo della tragedia che non fa bene né alla montagna né ai suoi abitanti né a noi.
Attenzione però, nessuno ha MAI mancato di rispetto al passato e a quello che è accaduto. Anzi, proprio perché lo si rispetta, e si rispetta la vita delle persone che oggi abitano a Casso, si è instaurato un pensiero attivo e vivace su un’attività culturale che si è inserita con progetti vivi, di arte contemporanea in un luogo denso e carico di significato e stimoli.
Rileggo le parole di Marc Augé e mi entusiasma come in poche sintetiche righe abbia centrato il nocciolo di DC. Bravo lui che – io presente – è stato in silenzio per giorni ad ascoltare, guardare, capire, mangiare (anche il capriolo, non solo le chiacchiere di noi artisti) e poi ha rielaborato tutto in un pensiero lineare, autentico e vero.
Io mi occupo prevalentemente di pittura, o meglio mi occupavo al tempo della mia residenza a Casso, quando le famiglie non erano mai state a visitare il nuovo museo e quando c’era quella viva e fertile aria di polemica, come viene detto. Ho vissuto per 10 giorni a Casso e ideato un progetto per me insolito, non per protagonismo o noia, ma proprio perché il luogo lo richiedeva: Casso non aveva bisogno di altri quadretti appesi, esigeva un’azione forte di relazione con il luogo, di apertura alla discussione e alla polemica, quella bella, che porta a sbraitarsi in faccia e a finire la giornata insieme bevendo vino e mangiando formaggio. E così è stato. Polemica-discussione. Ho pensato di realizzare 10 disegni, uno per ogni famiglia di Casso. Tagliarli a metà. Andare a trovare ognuno degli abitanti di Casso e regalare loro mezzo disegno. Mi hanno accolta tutti. Mi hanno aperto le porte di casa, abbiamo parlato, discusso, sorriso, scommesso. La seconda metà del disegno sarebbe stata data loro l’ultimo giorno di residenza: sono stati invitati infatti ad una festa tutti insieme al Museo. E loro sono tutti venuti, e insieme a Gianluca è scesa dalla sua bella casa arroccata anche Oliva, la signora più anziana del paese, che voleva PARTECIPARE. Tutti insieme abbiamo discusso molto, su cosa fosse importante. Casso è un luogo che doveva riappropriarsi dell’oggi, della vita che scorre. Doveva riprendere a produrre un pensiero contemporaneo alle vite delle persone che lo abitano. Questo dice Marc Augé e questo credo sia riuscito a fare nel suo piccolo anche il mio progetto insieme a DC. I disegni boh, forse oggi sono ancora appesi nelle case dei Cassani. Ma la giornata che abbiamo passato insieme, quella rimane ed è qualcosa che ha cambiato loro oltre che me. Questa è la relazione.

A Borca sono intervenuta un anno dopo, dopo che avevo fatto già diversi sopralluoghi, molti, perché Borca è un organismo, un gigante che va preso per mano. A Borca è stato diverso. Qui non c’erano persone attivamente presenti, se non un branco di ragazzetti che vandalizzava quella meraviglia la notte da sbronzi. Qui c’era una relazione da capire, una relazione da attivare. Ancora.
Anche qui ho vissuto per due settimane. Ho modificato il mio bioritmo assecondando quello del luogo, perché Borca, l’ho già detto, ha le sue regole, è a sé stante, bisogna inserirsi dentro, piano, come un piccolo virus. Dormivo in una delle casette, alle 6 con la prima luce che filtrava dal bosco uscivo di casa, entravo da sola, e sintonizzavo il respiro sul respiro di Borca: ticchettio della pioggia, cinguettio degli uccelli, un picchio nell’albero fuori, 6 strati di vestiti pesanti e giù a terra, a disegnare un pavimento di 10 metri quadrati con matita e carboncino.
Riemergevo alle 19, quando la luce fuori era troppo debole per lavorare ancora, e il freddo ormai paralizzava le dita.
Risalivo a casa, e il giorno seguente riprendeva uguale. Isolata, come i corridoi disabitati da anni.
Ecco, forse il mio lavoro non è stato visto, forse non esiste più, perché quello era il vero lavoro: far sì che le persone tornassero a vedere, studiare, cercare, vivere Borca. Negli anni, venendo a Borca con la scusa di vedere il mio lavoro – perché invitato le persone e accolte in molte molte occasioni e passato intere serate a lume di candela chinati a terra – la gente ha ripreso a “frequentare” quel posto e camminando sul pavimento pian piano ha cancellato il disegno. Ma non ha cancellato il lavoro, perché il calpestio della gente che è tornata a Borca è il vero lavoro che ho realizzato. Ed in parte anche il calpestio di Moreno Baccichet è parte del mio lavoro.

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Edoardo Turozzi:

Quando mi misi a riflettere su quale poteva essere l’argomento della mia Tesi di laurea, mi fu naturale pensare alla realtà dell’ex Villaggio Eni a Borca di Cadore, per quello che ha rappresentato, quello che oggi rappresenta e quello che potrà rappresentare. Ne venni a conoscenza un giorno a lezione al secondo anno di università e da quel momento diventò la mia meta fissa ogni volta che mi capitava di passare per Borca.

La presenza di Dolomiti Contemporanee sul luogo ne ha fatto il primo naturale interlocutore:

“… Ho intenzione di studiare un modo per poter riconnettere l’ex Villaggio Eni a Borca e al territorio.” – risposta – “Bene, bravo! È questo quello che serve e di cui ci occupiamo.”

Così è iniziato il rapporto che mi ha permesso, vivendo il luogo e frequentandolo, di cogliere l’interesse culturale attraverso il quale si intende riflettere e operare sull’ex Villaggio e la volontà di valorizzarlo con l’obbiettivo di rifunzionalizzare alcune sue parti, ormai in stato di abbandono. Ad esempio il complesso della ex Colonia, nell’ottica di riutilizzo come centro “gravitazionale” di attività. Trasformare una ex Colonia, da sempre isola rispetto il vivere circostante, in spazi aperti al territorio è un compito complesso. La soluzione non si trova solo negli spazi interni ad essa ma anche in termini di connessioni e di relazioni con il territorio al quale appartiene. L’appoggio di Dolomiti Contemporanee nell’interazione con l’amministrazione locale è stato fondamentale per confermare e rafforzare determinate scelte e soluzioni fondamentali che conferiscono al progetto le caratteristiche per essere vissuto quotidianamente.

La proposta d’intervento si risolve in una nuova struttura, dal carattere pubblico, collocata al fianco dei soleggiati campi sportivi, realizzati da Gellner a valle della Colonia servendoli e arricchendoli con ulteriori attività di carattere sportivo e di servizio. Gli spazi sono pensati per essere sfruttati da quelle attività che le strutture della Colonia non riuscirebbero ad ospitare: spogliatoi per i campi sportivi esistenti, palestra fitness, pareti d’arrampicata Outdoor, ristoro e spazi per attività ad uso occasionale. Questo mix di funzioni, richieste dal territorio aiutano a far si che il luogo sia vissuto e utilizzato da diverse categorie di persone. 

Come si diceva il tema delle funzioni viaggia di pari passo col tema dell’accessibilità. Una nuova passeggiata porta dalla Ciclabile delle Dolomiti ai piedi dell’edificio. Un sistema di risalita esterno costituito da una scala a giorno e un ascensore, conduce a una passerella pedonale che, scavalcando la strada d’accesso al villaggio, connette in modo diretto il nuovo intervento con gli spazi della Colonia, costituendo la continuità del percorso pedonale che collega il Villaggio al Centro di Borca.

Di pari passo con la realizzazione del nuovo intervento è necessario che anche la Colonia, ad esso collegata, sia oggetto di un percorso di recupero e rifunzionalizzazione. Relativamente a questo intento e a seguito di un’operazione di documentazione, analisi strutturale, valutazione delle condizioni in cui versa il complesso, studio delle caratteristiche del contesto e dell’accessibilità del sito, l’elaborazione di un progetto “pilota” di rifunzioanlizzazione del dormitorio M.

Pur sapendo che questi processi trasformativi hanno bisogno di tempo questa tesi vuole essere una possibile linea guida d’intervento concreta e dal carattere unitivo, forse un passo avanti verso la ricostruzione del dialogo tra la Colonia e il Territorio.