Mattia Bosco/Sezione aurea 12, Sezione aurea 18, Icona (Sezione aurea)

Mattia Bosco

Sezione aurea 12, 2016, marmo, palissandro, lamiera zincata dipinta a olio, 109x73x4 cm 
Sezione aurea 18, 2016, marmo, palissandro, foglia d’oro, 26,5x44x69,5 cm 
Icona (Sezione aurea), 2017, legno di larice, foglia d’oro, 20×32 cm

La prima tela dell’uomo fu la pietra.
Questo pensiero di Emmanuel Anati mi ha spinto a riconsiderare la pietra in una prospettiva più vasta, al di là della fascinazione che già esercitava su di me. Mi ha riportato alle origini di questa fascinazione che è una fascinazione delle origini. Ho avuto la chiara percezione che gran parte delle ragioni che mi inducono a pensare e a sentire che la pietra sia qualcosa di più di un semplice “materiale”, risiedessero proprio in questo rapporto originario e fondante dell’uomo con la pietra. La pietra come supporto originario del gesto umano, come materiale fin dall’inizio coinvolto nell’agire vitale dell’homo sapiens. Il debito dell’uomo nei confronti della pietra è totale, è come il debito che ognuno ha nei confronti della madre: a lei ognuno deve la vita. Ma un debito di tale portata è tale per cui non c’è modo di uscirne, non può essere ripagato se non vivendo. “La relazione dell’uomo con l’arte è parte delle caratteristiche fondamentali della specie. Un’umanità senza arte sarebbe difficilmente concepibile, come un’umanità senza sentimenti, senza emozioni e senza affetti”, dice sempre Anati. Dunque il solo modo per ripagare questo debito è di continuare a essere sapiens, assaporare questo rapporto con il mondo e con gli uomini facendo, tra le altre cose, arte. Perché l’arte “fa parte dell’essere uomo, è un’espressione e un’esigenza del suo essere sapiens“.
La prima tela dell’uomo fu la pietra“. La parete rocciosa come quel luogo in cui parete e tela sono una cosa sola, strette in una parentela profonda che continua anche dopo la loro separazione, e che ci porta ancora ad appendere le tele a parete, come fosse il luogo naturale al quale naturalmente tendono. Riportare la tela alla pietra significa ridare identità al supporto. Il segno non accade sulla soglia di uno spazio ideale, come qualcosa che ha tutto da dire rispetto a una materia che non ha niente da dire.
Nullus locus sine genio”, nessuna pietra è priva di un carattere suo proprio. La scultura è un itinerario della mente dentro quei luoghi, che si fa strada immaginandovi un interno, che lo porta in luce e proprio facendolo lo rende esterno. La parola greca “kroma” indica la superficie e solo in un significato derivato esprime ciò che intendiamo con colore. Superficie, epidermide, e quindi il colore della pelle, il “colorito”, quel tono caldo, vivace, che esprime la salute, e che la cosmesi intensifica. La superficie rocciosa, da limite, da fine dello spazio percorribile, diventa per la scultura l’inizio di un altro tipo di spazio. Addentrandosi nella pietra si accede all’immaginario, a ciò che Merleau-Ponty chiama “la fodera interna del reale”. Nell’istante in cui la pietra si dischiude, il suo sonno profondo si fa più leggero e la superficie rivela il sogno, da opaca diviene riflettente, ipnotica. I frammenti scintillanti di mica dorata, dispersi e in filigrana, si coagulano in lamine cicatrizzando la superficie scoperta, radunandosi in sezioni auree. Al risveglio la pietra è una scultura (M. B.).

 

opere in:
Fuocoapaesaggio
a cura di Gianluca D’Incà Levis e Giovanna Repetto
Forte di Monte Ricco, Pieve di Cadore (Bl)
20 maggio – 30 settembre 2017

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